DETECTIVE PER CASO - IL DIARIO DEL 2025
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Caro diario,
La notte scorsa ho dormito poco. La scena dell'uomo che si accasciava al tavolo al centro della pizzeria continuava a riaffiorare nella mia mente, come un film che non riesci a fermare. Il bossolo trovato vicino al corpo, l'agitazione del pizzaiolo, l'atmosfera tesa nella sala: tutto sembrava collegato, ma in un modo che ancora non riuscivo a comprendere. Era chiaro che c'era qualcosa di più profondo, un dettaglio nascosto che sfuggiva a tutti, ma non a me. Per la terza sera consecutiva sono tornato nella pizzeria. Era stata lasciata aperta perché tutte le prove erano già state registrate. Non avevo idea di cosa avrei potuto ancora scoprire.
Quando sono arrivato, l'atmosfera sembrava più calma rispetto alle sere precedenti. Forse era solo una mia impressione, o forse la tragedia del giorno prima aveva lasciato un segno nei clienti abituali. Sono entrato con passo deciso, ma cercando di non attirare troppo l'attenzione. Mi sono seduto al solito posto vicino al bancone, ho ordinato una birra e ho iniziato a osservare.
Il famoso tavolo al centro era stato ripulito e nuovamente apparecchiato, come se nulla fosse accaduto. Non era più prenotato. La tovaglia era candida, i bicchieri lucidi, ma per me quel tavolo aveva ormai un peso sinistro. Il pizzaiolo era al suo posto, ma sembrava più teso del solito. Evitava di guardare verso il centro della sala, concentrandosi sul forno e sulle pizze da infornare. I camerieri, invece, sembravano muoversi con una strana cautela, come se avessero paura di avvicinarsi a quel tavolo.
Ad un certo punto, è entrato un uomo. Aveva un’aria distinta e sicura di sé. Portava un lungo impermeabile beige e una borsa di pelle. Si è fermato all'ingresso, guardandosi intorno, come se cercasse qualcuno o qualcosa. Poi si è avvicinato al bancone e ha parlato con il cameriere, che lo portato, con aria inquieta, al famoso tavolo al centro.
Tutti gli occhi nella sala erano puntati su di lui, me compreso. L'uomo si è seduto con calma, ha appoggiato la borsa sul tavolo e ha ordinato un bicchiere d'acqua. Sembrava sereno, persino annoiato, mentre apriva la borsa e tirava fuori un libro rilegato in pelle. Ha iniziato a sfogliarlo, ignorando del tutto l'attenzione che aveva attirato.
Mi sono reso conto che tutti quanti aspettavano che succedesse qualcosa… come la sera precedente. Sono rimasto ad aspettare e osservare. Ad un certo punto ho notato che il pizzaiolo era sparito. Non era più al forno, né in cucina. L’ho cercato con lo sguardo, ma sembrava svanito.
Mi sono avvicinato lentamente alla cucina, fingendo di andare al bagno. Ho aperto la porta a vetri e l’ho visto. Il pizzaiolo era lì, nel retro, con un telefono in mano e l'aria tesa. Parlava sottovoce, ma sono riuscito a captare qualche parola: “È qui... sì, al tavolo... no, non ho potuto evitarlo ieri, mi dispiace, ma non posso continuare così. Dobbiamo fermarlo?”
Fermarlo? Di chi stava parlando? E perché sembrava così nervoso? Prima che potessi fare altro, il pizzaiolo si è voltato di scatto e mi ha visto. Per un attimo siamo rimasti entrambi immobili, poi lui ha abbassato il telefono e si è avvicinato a me con un sorriso forzato.
“Tutto bene? Posso aiutarla?” ha detto, cercando di nascondere la tensione.
“Solo una curiosità,” ho risposto, cercando di sembrare disinvolto. “Quel tavolo al centro… cosa ha di così speciale?”
Il suo sorriso si è spento.
“È solo un tavolo,” ha risposto in fretta, quasi sussurrando. Poi ha aggiunto: “Scusi, ho del lavoro da fare.” Ed è sparito di nuovo nel retro.
Sono tornato al mio posto, ma ormai la mia attenzione era completamente focalizzata su ciò che stava succedendo. L’uomo al tavolo continuava a leggere, apparentemente ignaro del fermento intorno a lui. Era strano: non aveva ordinato nulla oltre all’acqua, non aveva parlato con nessuno. Sembrava lì solo per essere visto.
Poi, dal nulla, una figura è comparsa nella sala: un uomo basso e claudicante, con un cappello che nascondeva l’intera faccia. Si è avvicinato al tavolo centrale, ha appoggiato entrambe le mani sul legno e ha fissato l’uomo seduto.
“Non sei il benvenuto qui,” ha detto con un tono basso, ma carico di minaccia.
L’uomo seduto non si è scomposto. Ha sollevato lo sguardo dal libro e ha risposto con calma:
“Non sono qui per creare problemi. Sono qui per riprendere ciò che è mio... considerando che di tuo non c’è più nulla.”
A quelle parole, l’uomo si è voltato di scatto verso il bancone.
“Luigi!” ha gridato.
Il pizzaiolo è uscito dal retro, pallido come un lenzuolo.
“Hai fatto entrare lui? Ti avevo detto di non farlo mai entrare!”
Luigi ha balbettato qualcosa, ma è stato interrotto dall’uomo al tavolo, che ha detto con voce ferma:
“Il tempo delle minacce è finito. O mi dai ciò che mi spetta, o questo locale finirà come la tua famiglia.”
La tensione era alle stelle. Tutti nella sala osservavano in silenzio, trattenendo il fiato. Sentivo che qualcosa stava per esplodere, ma non potevo immaginare cosa. Poi, con un movimento rapido, l’uomo basso ha tirato fuori una pistola e l’ha puntata contro l’uomo al tavolo.
Un urlo ha squarciato il silenzio, ma prima che potessi intervenire, l’uomo al tavolo si è alzato di scatto e con un movimento fulmineo ha disarmato il suo aggressore. La pistola è caduta sul pavimento con un rumore sordo. Il “basso” è rimasto immobile, incredulo, mentre l’uomo al tavolo lo fissava con uno sguardo gelido.
“Questo è il mio ultimo avvertimento,” ha detto. Poi ha raccolto la sua borsa ed è uscito dalla pizzeria senza aggiungere una parola.
La sala era ancora paralizzata, e solo allora mi sono reso conto di quanto fosse importante quel tavolo. Non era solo un luogo fisico, ma un simbolo, il fulcro di una storia complessa fatta di ricatti, minacce e potere. E io ero finito nel mezzo di tutto questo, senza nemmeno volerlo.
Quando la polizia è arrivata, avvertita da qualche cliente impaurito, Joel mi ha guardato con aria interrogativa.
“Giorgio, di nuovo tu? Cos’è successo questa volta?”
Mi sono limitato a sorridere. Sapevo che le risposte non erano ancora chiare, ma una cosa era certa: quel tavolo era più di quanto chiunque potesse immaginare, e la storia non era ancora finita.


Caro diario,
Mi sono svegliato con un pensiero fisso: il tavolo vuoto al centro della pizzeria. Non riuscivo a togliermi dalla testa il sorriso enigmatico del cameriere e la strana spiegazione che mi aveva dato. Era come se una parte di me sapesse che c’era qualcosa di più dietro quella storia. Ho passato la mattina a cercare di distrarmi, immergendomi nelle faccende quotidiane, ma la curiosità continuava a tormentarmi. Così ho deciso di tornare in quella pizzeria, questa volta con l’intenzione di osservare più attentamente.
Sono arrivato verso le ore venti, quando il locale cominciava a riempirsi. La stessa atmosfera calorosa di ieri, lo stesso brusio di voci che si sovrapponevano, e ovviamente, lo stesso tavolo vuoto al centro della sala. Ho preso posto al bancone, ordinando una birra per non dare nell’occhio. Mi sono messo a osservare la scena, cercando di cogliere ogni dettaglio.
Il pizzaiolo era indaffarato come sempre, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che non avevo notato la sera prima. Ogni tanto lanciava rapide occhiate al tavolo vuoto, come se stesse aspettando qualcosa o qualcuno. I camerieri, invece, sembravano quasi evitare di passarci vicino, come se quel tavolo fosse tabù. Tutto questo non ha fatto che aumentare il mio interesse.
Ad un certo punto, un uomo è entrato. Elegante, distinto, con un portamento sicuro che attirava l’attenzione. Indossava un completo scuro e portava con sé una cartella di cuoio. Mi sono chiesto chi potesse essere, ma prima che potessi formulare un’ipotesi, l’uomo si è avvicinato al bancone e ha mostrato qualcosa al cameriere. Una prenotazione, forse? Dopo un breve scambio, il cameriere lo ha accompagnato al famoso tavolo vuoto.
La sala sembrava trattenere il respiro. Tutti osservavano con curiosità, alcuni con un’ombra di nervosismo. L’uomo si è seduto, ha appoggiato la cartella sul tavolo e ha ordinato un bicchiere di vino. Ha sfogliato alcuni fogli che aveva portato con sé, ignorando completamente gli sguardi intorno a lui. Era come se fosse l’unica persona nella stanza.
Improvvisamente, ho notato un movimento strano dietro il bancone. Il pizzaiolo si era fermato, con lo sguardo fisso sull’uomo al tavolo. Sembrava nervoso, agitato. Poi, con un gesto rapido, si è girato verso la cucina. Non ci avrei fatto caso, se non fosse stato per un dettaglio: il suo grembiule era bucato, non uno strappo ma un buco preciso. Mi sono chiesto cosa stesse succedendo, ma non ho avuto tempo di riflettere.
Mentre l’uomo al tavolo sollevava il bicchiere per sorseggiare il suo vino, si è accasciato di colpo. Il bicchiere è caduto, rompendosi, e il vino si è sparso come sangue sulla tovaglia candida. La scena è durata un attimo, ma sembrava un’eternità. Tutti nella sala si sono fermati, congelati dall’incredulità. Poi, il caos.
I camerieri si sono precipitati verso l’uomo, cercando di scuoterlo. Qualcuno ha chiamato un’ambulanza, mentre altri cercavano di calmare i clienti. Io sono rimasto immobile, cercando di analizzare la situazione. L’uomo era morto, ma non colpito alla schiena da una pallottola.
Poco dopo, la polizia è arrivata. Tra di loro c’era Joel, come sempre nel ruolo di commissario capo, che non ha perso tempo e ha preso subito il comando della situazione. Quando i paramedici hanno confermato il decesso, Joel si è avvicinato a me, con uno sguardo che conoscevo bene.
“De Giorgi, cosa ci fai qui?” mi ha chiesto, con un tono che mescolava sorpresa e rimprovero.
Ho spiegato brevemente la mia curiosità per il famoso tavolo vuoto e come mi fossi trovato lì per puro caso.
Joel ha scosso la testa.
“C’è qualcosa di strano in questa storia. Resta a disposizione, potremmo aver bisogno di te.”
Mentre la polizia iniziava a interrogare i presenti, ho continuato a osservare il pizzaiolo. Era pallido, sudava copiosamente e continuava a lanciare occhiate nervose verso la cucina. C’era qualcosa in lui che non mi convinceva. Ho deciso di rimanere fino alla fine per capire meglio. Non poteva essere una coincidenza che quell’uomo fosse morto proprio in quel tavolo.
Verso la fine della serata, quando la pizzeria si era svuotata, ho notato un dettaglio inquietante: un bossolo di pistola sotto uno dei tavoli vicini. Era piccolo, quasi invisibile, ma il suo luccichio mi ha colpito. L’ho indicato a Joel, che lo ha raccolto con cautela.
“Un colpo di pistola con il silenziatore,” ha detto, esaminandolo. “Sembra che il nostro caso sia appena diventato un omicidio.”
Mi sono sentito invaso da un misto di eccitazione e inquietudine. Quel tavolo, che sembrava così insignificante, nasconde una storia oscura. E io sono deciso a scoprirla.
Caro diario,
Oggi ho sentito il bisogno di staccare dalla routine e concedermi una serata diversa. Era da un po' che non visitavo Susa, quella cittadina incastonata tra le montagne, un luogo che riesce sempre a offrirmi una sorta di pace. Mi sono detto: “Perché non andare a mangiare una pizza?”. Ho cercato qualche consiglio online e ho trovato una pizzeria che sembrava promettere bene, una di quelle con recensioni entusiaste e foto che fanno venire l’acquolina in bocca.
Arrivato nel centro storico, mi sono lasciato alle spalle la macchina e ho camminato un po’. Le stradine acciottolate, le facciate delle case antiche e l’aria fresca della sera mi hanno messo di buon umore. Quando sono entrato nella pizzeria, però, ho subito notato una cosa: era piena zeppa. Ogni tavolo era occupato, c’era un brusio costante, ma piacevole, di chiacchiere e risate. L’unico tavolo libero era al centro della sala, apparecchiato con cura, come se aspettasse qualcuno di importante. Per un momento ho pensato che fosse riservato per un cliente abituale o per un ospite speciale.
Mi sono avvicinato al bancone, cercando di attirare l’attenzione di un cameriere. Dopo qualche minuto, uno di loro è venuto da me, un ragazzo giovane, con il grembiule macchiato di farina e un sorriso un po' imbarazzato. Gli ho chiesto se il tavolo al centro fosse disponibile, visto che tutto il resto sembrava occupato. Lui ha fatto un sorriso strano, quasi enigmatico, e mi ha detto:
“Mi spiace, ma quel tavolo è sempre prenotato”.
Ho trovato la cosa curiosa. Sempre prenotato? E da chi? Ma non ho voluto fare domande. Ho aspettato pazientemente che si liberasse un altro tavolo. Nel frattempo, mi sono appoggiato al bancone, osservando la sala. C’era una certa familiarità tra i clienti e il personale, come se la maggior parte delle persone si conoscesse da anni. Questo dettaglio mi ha fatto sentire un po’ un estraneo, ma al tempo stesso mi ha incuriosito. Era chiaro che questo posto aveva una storia, un’atmosfera che non si poteva spiegare facilmente.
Dopo circa venti minuti, un tavolo vicino alla finestra si è liberato, e finalmente mi sono potuto sedere. Ho ordinato una margherita con bufala e una birra artigianale locale, seguendo il consiglio del cameriere. Mentre aspettavo, non potevo fare a meno di continuare a guardare quel famoso tavolo al centro. Era come un’isola nel mare di persone, intoccabile, quasi sacro.
La pizza è arrivata e devo dire che era davvero deliziosa. La crosta era croccante, il pomodoro dolce al punto giusto, e la mozzarella filava che era un piacere. Ho cercato di concentrarmi sul cibo, ma la mia attenzione tornava sempre lì, su quel tavolo vuoto. Una volta, ho notato il pizzaiolo che sbirciava dalla cucina e guardava nella stessa direzione. Sembrava preoccupato o forse solo pensieroso. Cosa c’era di così speciale in quel tavolo?
Verso la fine della serata, ho deciso di chiedere di nuovo al cameriere, stavolta con più insistenza. Gli ho chiesto perché quel tavolo fosse sempre prenotato ma mai occupato. Lui ha abbassato la voce, come se stesse per raccontarmi un segreto, e ha detto:
“È così da anni. È prenotato per ogni sera dalla stessa persona, ma non si presenta mai. Ha pagato in anticipo e non sappiamo chi sia. E così lo lasciamo lì…”.
È una spiegazione che non mi ha convinto del tutto. Non ho approfondito ulteriormente, ma quella frase mi è rimasta in testa. Mi sono chiesto chi fosse questa persona misteriosa e perché pagasse per un tavolo che non utilizzava mai. Era solo un capriccio? Oppure c’era qualcosa di più? Mentre uscivo dalla pizzeria, con l’aria fresca che mi accarezzava il viso, ho avuto la sensazione che questa storia non fosse così semplice come sembrava. Quel tavolo vuoto aveva un peso, una presenza che non riuscivo a ignorare.
Sono tornato a casa con un misto di soddisfazione e inquietudine. La pizza era ottima, ma non riuscivo a smettere di pensare a quel dettaglio apparentemente insignificante. Forse ero solo stanco e stavo dando troppa importanza a una sciocchezza, ma il mio istinto mi diceva che c’era qualcosa di più. Ho deciso che avrei indagato ulteriormente, anche se non avevo ancora un piano preciso. Dopo tutto, il mio lavoro di detective mi ha insegnato che a volte sono proprio i dettagli più banali a nascondere le storie più intriganti.


Caro diario,
Mi sono svegliato più tardi del solito. Ho fatto la doccia e sono sceso in cucina dove ho trovato Joel, con l’anello in mano. Pareva lo stesse pulendo. Ad un certo punto mi ha fatto notare che l’anello era stato contraffatto… il vero nome non era M. Otteo ma M. Lilio. Era stato usato un pennarello indelebile per riscrivere il nome, modificando i caratteri.
Come avevo potuto non vederlo prima?
Lilio era il nome della persona scomparsa che avevo letto sul giornale. Ho fatto ricerche su Internet ed ho scoperto che era un ex regista freelance che aveva lavorato per alcuni piccoli documentari indipendenti negli ultimi anni. Aveva avuto problemi economici, un paio di denunce per truffa e, da quanto sembrava, era sparito da Torino da quattro giorni. Lì ho capito che il cadavere non era Otteo ma Lilio.
Mi sono diretto verso la biblioteca, sperando di trovare qualche traccia della sua attività. In un vecchio articolo di giornale ho letto che Lilio aveva lavorato con Marco Otteo per un progetto su luoghi dimenticati della Val di Susa. Il documentario era stato interrotto, ufficialmente per mancanza di fondi. Nella foto sotto l’articolo si riconosceva perfettamente il paesaggio di Drubiaglio. Sono tornato a casa dove ho trovato Joel che mi ha detto che dovevamo agire subito.
Siamo ripartiti verso sera. Il sole calava e il cielo aveva quel colore che preannuncia tempesta. Il terreno attorno al luogo del ritrovamento era stato smosso. Mi sono inginocchiato e ho cominciato a scavare di nuovo. Non cercavo un altro corpo. Cercavo un oggetto, una prova. E l’ho trovata: a qualche centimetro di profondità, c’era una chiavetta USB. Sporca di terra. L’ho pulita con un fazzoletto e l’ho messa in tasca.
Tornato a casa con Joel, ho collegato la chiavetta al computer. Per fortuna era funzionante. Dentro c’era un unico file video. L’ho aperto. Il filmato mostrava Marco Otteo e Michele Lilio che discutevano animatamente. Non si sentivano bene le parole, ma si capiva che litigavano su cosa fare con le riprese. A un certo punto, si vedeva Marco colpire Michele con un oggetto metallico. Lilio cadeva a terra. Si vedeva Marco che bruciava il corpo di Michele e che poi chiudeva la botola… poi, improvvisamente il video si bloccava per poi riattivarsi all’interno di una stalla. Dove si poteva vedere il corpo di Otteo incatenato alla “posta”.
Mi sono appoggiato alla sedia. Joel è rimasto in silenzio, ma il suo sguardo era eloquente. Avevamo trovato l’assassino.
Ho chiamato Casale. Gli ho detto che avevo trovato del materiale compromettente riguardo all’omicidio. Ho consegnato la chiavetta, ho spiegato tutto. Otteo è stato trovato ancora legato all’interno della stalla. Anche se erano trascorsi diversi giorni era ancora in condizioni discrete. Ha confessato l’omicidio, non ricorda nulla del perché si trovasse all’interno della stalla con la videocamera al collo.
Sono rientrato a casa a notte fonda. Joel mi stava aspettando rilassato sulla poltrona. Gli ho chiesto cosa poteva essere successo e lui mi ha spiegato l’enigma. La cartolina alla porta l’aveva messa Joel. Il diario ci aveva convocato urgentemente e ci aveva catapultato in un passato molto recente. Ci siamo trovati nel buio della campagna di Drubiaglio. Una leggera coltre di fumo indicava il luogo dove avevo trovato il corpo… Ci siamo avvicinati e abbiamo trovato Otteo che stava chiudendo la botola. Sono riuscito a tramortirlo senza che lui si accorgesse della mia presenza. Non potevo fare nulla per Michele, ormai giaceva carbonizzato sotto terra. Joel mi ha fatto notare la videocamera digitale. Abbiamo constatato che era ancora accesa. Non potevamo farci vedere nel filmato. Abbiamo mandato indietro la ripresa fino al momento in cui Otteo stava per chiudere la botola. Abbiamo portato il suo corpo ancora svenuto all’interno della stalla e lo abbiamo legato e imbavagliato. Abbiamo fatto ripartire la ripresa e l’abbiamo salvata sulla chiavetta che era collegata alla videocamera. Mentre scrivevo l’indirizzo sulla cartolina, Joel era tornato alla botola e aveva modificato il nome sull’anello e nascosto la chiavetta USB sotto terra. A quel punto ho chiesto perché non mi ricordavo nulla di tutto questo e Joel ha semplicemente risposto:
“Un passato troppo vicino al presente non può essere ricordato da te perché andrebbe a compromettere la tua stessa esistenza.”
Adesso tutto mi è più chiaro, ma anche molto più spaventoso… questo diario continua a stupirmi sempre di più.
Caro diario,
La giornata è cominciata con una sorpresa. Una telefonata che non mi aspettavo, ma che stavo segretamente sperando. Era il mio contatto all’anagrafe. La sua voce, bassa e discreta, mi ha comunicato che aveva finalmente trovato qualcosa. Un uomo di nome Marco Otteo, regolarmente registrato nei registri.
Mi sono segnato subito l’indirizzo dell’ultima residenza conosciuta. L’appartamento si trovava in una zona periferica di Torino, in un quartiere tranquillo, di quelli con le strade alberate e i palazzi costruiti negli anni Sessanta. Edifici grigi, dalle linee squadrate, pieni di storie dimenticate. Quando sono arrivato lì, ho provato a suonare il campanello. Non mi aspettavo una risposta, ma l’ho fatto comunque, forse per non sentirmi troppo intruso. Come previsto, nessuno ha aperto.
Stavo per allontanarmi quando ho sentito il rumore dei passi sulle scale. Una signora anziana, con un cappotto pesante anche se fuori faceva caldo, stava scendendo lentamente. Ha incrociato il mio sguardo con curiosità. Le ho chiesto, con tono disinvolto, se conoscesse Marco Otteo. Lei ha annuito con aria pensierosa. Mi ha detto che lo vedeva spesso. Però erano due giorni che le sue tapparelle erano abbassate, “Come se fosse andato in vacanza,” ha detto.
L’ho ringraziata e me ne sono andato. Se davvero il corpo trovato sotto terra a Drubiaglio era quello di Marco Otteo, allora qualcuno aveva agito in fretta. Aveva voluto cancellare ogni traccia della sua presenza, e l’aveva fatto con una meticolosità inquietante.
Il pomeriggio è trascorso in modo strano. Non avevo una meta precisa, così ho iniziato a vagare per le vie di Torino, lasciandomi guidare dall’istinto, cercando forse di schiarirmi le idee. E poi, come spesso accade in questi casi, Joel è apparso. Era davanti a un’edicola, con il solito sorrisetto enigmatico. Aveva appena comprato un giornale e mi ha indicato un piccolo trafiletto nella pagina di cronaca. L’ho letto. Parlava di una denuncia riguardo alla sparizione di una persona, un certo Michele Lilio. L’ultima volta era stato visto nei pressi di Drubiaglio. Spinto da questa nuova strana informazione, ho deciso di andare da Casale. È abbastanza facile ottenere qualche informazione da lui, e sapevo che, se c’erano novità, le avrei percepite dal suo sguardo prima ancora che dalle sue parole. E infatti, appena sono entrato nel suo ufficio, ho notato che c’era tensione nell’aria. Casale mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Mi ha mostrato un’immagine. Un volto. Quello che sembrava proprio essere Marco Otteo. Non ha detto molto, ma bastava il gesto per capire: qualcosa stava finalmente venendo a galla.
Rientrato a casa, ho sentito il bisogno urgente di fare ordine. Ho svuotato lo zaino sul tavolo dello studio e ho disposto con cura tutto quello che avevo raccolto nei giorni precedenti: la cartolina, le foto del cadavere, l’anello, i frammenti di plastica, la scarpa infangata. Ogni oggetto aveva un peso, non solo materiale ma anche simbolico. Cercavo un filo logico, un collegamento che desse senso a quell’intrico oscuro. Joel, come spesso fa, ha cominciato a camminare avanti e indietro nella stanza. Sembrava riflettere insieme a me.
Poi si è fermato davanti alla cartolina. Io l’ho raggiunto e ci siamo messi entrambi a guardarla. E lì ho notato una piccola ombra. Come se ci fosse stato qualcosa che poi era stato cancellato. Un ritocco. Una sfumatura innaturale. Qualcosa era stato modificato. Ma da chi? E perché?
La mia mente ha cominciato a elaborare ipotesi. Forse qualcuno non voleva che vedessi un dettaglio, un nome, un luogo. Forse la cartolina era arrivata a me dopo essere passata per altre mani. Manipolata. Alterata. Ma a quale scopo? Era un avvertimento? Un depistaggio?
Non posso fermarmi adesso. Potrei scoprire la verità su Marco Otteo. Potrei fare giustizia. O potrei affondare del tutto. Ma a questo punto, non ho più scelta.


Caro diario,
La notte scorsa è stata un tormento continuo. Non ho praticamente chiuso occhio. I pensieri si rincorrevano nella mia mente senza darmi tregua, un vortice ininterrotto di immagini, supposizioni e ricordi che non riuscivo a placare. La scena che si ripeteva più di tutte era quella della cavità nel terreno, quel vuoto scavato frettolosamente, e dentro… il corpo. Il corpo di uno sconosciuto, abbandonato come un oggetto senza valore. Ma ciò che continuava a tormentarmi più di tutto era quell’anello. Piccolo, ma così carico di mistero. Un semplice cerchio di metallo con inciso un nome: M. Otteo. Un nome che ormai si era fissato nella mia mente come un’ossessione.
Mi era chiaro che non avrei trovato pace semplicemente restando a casa, a fissare il soffitto e a chiedermi il perché. Avevo bisogno di risposte, di qualcosa di concreto a cui aggrapparmi. Così, senza perdere tempo, ho rimesso tutto nello zaino: torcia, taccuino, guanti, cellulare. E sono tornato là dove tutto era cominciato. Di nuovo a Drubiaglio, quella piccola frazione tra i campi, tanto silenziosa quanto inquietante.
Il sentiero lo ricordavo bene. Avevo impressa nella mente ogni curva, ogni masso, ogni ramo spezzato. Quando sono arrivato, il luogo era esattamente come lo avevamo lasciato il giorno prima. Nulla sembrava essere stato toccato. L’aria era immobile, quasi irreale. Il silenzio accentuava ogni fruscio, ogni scricchiolio. E proprio quando stavo per iniziare a ispezionare il luogo, Joel è apparso. Sempre all’improvviso, come se sapesse esattamente dove e quando intervenire.
Mi ha indicato la zona attorno al muretto di pietre, quello parzialmente coperto dalla vegetazione. Seguendo il suo sguardo, ho cominciato a osservare meglio. Non solo il punto del ritrovamento del corpo, ma anche le zone immediatamente adiacenti. Mi sono mosso con calma, con metodo, come mi aveva insegnato lui: sguardo basso, mani pronte ma caute. Dopo una decina di minuti, tra le radici e l’erba smossa, ho notato dei piccoli frammenti di plastica trasparente. Inizialmente potevano sembrare dei riflessi, ma a uno sguardo più attento erano innegabilmente pezzi di una busta. Consumata, sporca di terra, lacerata.
Li ho raccolti con attenzione. Proseguendo la perlustrazione, pochi metri più in là, ho fatto un altro ritrovamento: una scarpa da trekking. Completamente infangata, mezza sepolta nel terreno umido. Non era nuova, ma nemmeno troppo vecchia. Un dettaglio mi ha colpito subito: non apparteneva al cadavere. Le scarpe che indossava l’uomo sepolto erano di tutt’altro tipo. Allora a chi apparteneva quella scarpa? Una possibilità ha cominciato a insinuarsi nella mia mente: forse l’assassino, o chiunque avesse portato quel corpo fino a lì, era rimasto impantanato. Forse nel tentativo di fuggire o nascondere le prove, aveva perso la scarpa, abbandonandola nella melma.
Ho scattato qualche foto col cellulare, evitando di toccare ulteriormente gli oggetti. Non volevo compromettere nulla. Poi mi sono seduto su una pietra piatta, cercando di collegare i punti. Chi era M. Otteo? Perché era finito lì, sepolto in modo così frettoloso, quasi con disprezzo? Era stato ucciso? E se sì, perché? E soprattutto: da chi?
Nel pomeriggio, rientrato a casa, ho deciso di muovermi in modo più mirato. Ho cominciato a fare qualche telefonata, ma con discrezione. Non volevo ancora coinvolgere troppo le autorità o fare rumore. Casale e il suo gruppo erano già al lavoro con le indagini ufficiali, e non volevo intralciare. Ma volevo – dovevo – capire qualcosa in più. Così ho chiamato Luca, un vecchio amico che lavora all’anagrafe centrale di Torino. Gli ho chiesto, con tono vago, se potesse aiutarmi a cercare qualcuno con il nome "M. Otteo". Mi ha ascoltato, curioso, ma subito mi ha ricordato che con la legge sulla privacy le cose non sarebbero state facili. Gli ho detto che si trattava di un'indagine personale per un progetto giornalistico. Non era del tutto falso.
Lui ha promesso di dare un’occhiata nei ritagli di tempo. Io, intanto, mi sono buttato nel web. Ore intere a cercare tra vecchi articoli, database, social network, necrologi. Ma niente. Nessuna traccia di un "M. Otteo". Il nome era troppo vago, troppo generico. E io avevo così pochi elementi: niente età, nessuna foto, nessuna certezza che quel nome appartenesse davvero al morto. Poteva essere anche di qualcun altro. Un ricordo. Un oggetto scambiato.
Verso sera, mentre la frustrazione montava, Joel ha scritto di nuovo sul diario. Un messaggio rapido, ma chiaro:
Torna a guardare la cartolina.
Quella cartolina l’avevo quasi dimenticata. L’ho tirata fuori dal cassetto dove la tenevo conservata insieme agli altri reperti. L’ho osservata meglio, con più attenzione. E lì, nell’angolo inferiore destro, appena visibile sotto l’immagine del paesaggio, ho notato qualcosa. Una sigla. Stampata in caratteri maiuscoli, quasi invisibili. Quattro lettere: “M.L.MO.”
All’inizio ho pensato a un timbro tipografico, il marchio del produttore. Ma più ci riflettevo, più quella sigla mi sembrava qualcosa di intenzionale. Forse le iniziali di qualcuno coinvolto? Un autore? Un complice? O magari un messaggio in codice? Le possibilità erano infinite. E nessuna mi dava pace.
A quel punto avevo bisogno di una pausa. Sono uscito per fare due passi, fino al parco Alveare, un luogo che mi è sempre servito per schiarirmi le idee. L’aria fresca, il rumore delle foglie mosse dal vento… anche solo mezz’ora lì, da solo, mi ha aiutato a calmarmi un po’.
Tornato a casa, ho riposto l’anello nella piccola scatola di metallo dove conservo gli oggetti più strani e significativi. Una sorta di archivio personale. Ma anche dopo aver chiuso il coperchio, la mente non si è fermata. Continuava a correre, senza tregua.
Chi era quell’uomo? Quale passato si portava dietro? Cosa lo aveva condotto in quel prato isolato? Era stato attirato lì? O era fuggito da qualcosa, da qualcuno? Dovevo scoprirlo. Dovevo dare un volto a quel nome, ricostruire la sua storia, rendergli giustizia. Perché anche se non lo conosco, M. Otteo merita di essere ricordato. E io non smetterò finché non trovo la verità.
Caro diario,
Avevo deciso di prendermi un giorno per me, lontano da pensieri complicati e dai ricordi ancora troppo freschi dell'indagine di Torino. Ma la mia tranquillità è stata interrotta presto.
Verso le nove del mattino ho trovato infilata nella porta di ingresso una cartolina. Non era stata spedita per posta: nessun francobollo, nessun timbro, nessuna indicazione del mittente. Solo l'immagine sbiadita di un paesaggio di campagna in bianco e nero e, sul retro, poche parole: un indirizzo, scritto in modo ordinato, quasi meticoloso. La cosa inquietante è che la calligrafia era la mia. Identica. Come se l’avessi scritta io stesso, ma non ricordassi di averlo fatto.
Il nome della località sull'immagine era "Drubiaglio", una frazione di Avigliana. L'indirizzo riportava una via e un numero civico ben preciso. Non c'era altro. Nessun "per favore vieni" o "aiutami". Solo una fredda indicazione, come se fosse un ordine dato con calma.
Nonostante le perplessità, ho preparato lo zaino e sono partito a piedi. La bella giornata invogliava proprio a fare una passeggiata. Durante il tragitto, ho avuto come l'impressione che qualcuno mi seguisse. Mi sono voltato e ho visto Joel che, sorridendo, mi seguiva da lontano come se stesse osservando ogni mia mossa. Sapevo che mi stava aspettando qualcosa, e non era una semplice camminata in campagna.
Drubiaglio è un posto particolare. La maggior parte delle case circondano la chiesa parrocchiale, orti e campi ben curati e un silenzio, rotto solo da qualche cane in lontananza e dalle auto che transitano sulla strada provinciale.
Ho cercato la via indicata. Esisteva, però al numero civico segnalato non c'era nulla. Nessuna casa, nessun edificio, nemmeno le fondamenta. Solo un prato incolto, un albero contorto e un vecchio muro in pietra, probabilmente i resti di qualcosa crollato molto tempo fa. Non riuscivo a capacitarmi. Lì dove avrebbe dovuto esserci una casa, c'era solo terra.
Ho girato intorno all'area per alcuni minuti, cercando qualche indizio. Niente. Finalmente Joel mi ha raggiunto, mi ha guardato sorridente e ha puntato il dito verso il muretto.
“Ricordati che i dettagli sono sempre quelli meno evidenti,” mi ha detto.
Mi sono avvicinato al punto che mi ha indicato e ho notato una zona leggermente più abbassata. Il terreno era coperto di foglie secche e piccoli rami, ma spostandoli ho visto una lastra di metallo pesante. Non sembrava parte di una struttura, più qualcosa posizionato apposta per coprire. Ho provato a spostarla. Era pesante, ma con un po' di fatica ci sono riuscito.
Sotto, c'era una botola. Un buco, nemmeno troppo profondo, una sorta di pozzetto improvvisato. All’interno c’era un corpo completamente carbonizzato.
Mi sono sentito ghiacciare. Il cadavere era lì da pochi giorni, forse tre o quattro. L'odore era appena percettibile, ma sufficiente per confermare che non si trattava di qualcosa di vecchio.
Ho contattato subito Casale.
“Maggiore, ho trovato un cadavere!”
“De Giorgi, sparisci per giorni interi e poi ti fai sentire nel momento in cui trovi un morto! Te le vai proprio a cercare le situazioni strane. Arriviamo.” Ha interrotto la comunicazione con una sana risata. Mi sembrava tutto così assurdo e avevo bisogno di elaborare il tutto prima che arrivassero i carabinieri.
Mi sono coperto il naso con un fazzoletto per non inalare l’odore della morte. Ho fatto delle fotografie e poi ho notato che nella mano sinistra c’era un anello. Era semplice, d'argento, sulla superficie portava un'incisione con caratteri molto squadrati: "M. Otteo". Quel nome non mi diceva nulla, ma poteva essere il nome della vittima.
Ho riposizionato la lastra e mi sono allontanato lentamente per evitare che qualcuno notasse la mia presenza.
Quando è arrivato Casale gli ho mostrato il luogo del ritrovamento e ho chiesto di poter tenere l’anello per cercare qualche informazione sul cadavere.
“Certamente Giorgio, chi non si porta via le prove sul luogo di un delitto?” ha risposto Casale con una sana risata che ha smorzato la tensione in quell’istante. “Se non avessi imparato a conoscere le tue stranezze investigative, sospetterei che tu possa essere il colpevole. Tienimi aggiornato sugli sviluppi del caso.”
Sapevo che quell’anello avrebbe rappresentato un punto di partenza. Ma la cosa che non riuscivo a togliermi dalla testa era la cartolina. Chi me l’aveva mandata? Perché se brava che l’avessi scritta io? E soprattutto, come poteva contenere un dettaglio così preciso come un indirizzo che portava a un cadavere recente?
La sera è stata lunga. Ho posato l'anello sul tavolo della cucina, l'ho osservato per ore, cercando di carpirne qualcosa in più. Ho provato a cercare il nome online ma non ho trovato nulla di rilevante. Nessuna notizia, nessuna segnalazione, nessun profilo social.
Alla fine, mi sono sdraiato sul divano e ho chiuso gli occhi. Ma non ho dormito. Il volto di quell'uomo, la cartolina, l'indirizzo inesistente, l'anello: tutto girava in testa come in un film mal montato. So solo una cosa: ho bisogno di risposte.


6 giugno 2025
Caro diario,
Non più solo indizi, non più solo supposizioni o mezze verità: oggi ho avuto davanti a me l’ultima tappa, il momento in cui tutti i frammenti raccolti dovevano finalmente combaciare. Siamo tornati alla villa di Bardelli, avvolta da una quiete irreale. Una quiete che, per quanto studiata, non riusciva a nascondere l’odore stantio di vecchie bugie.
Davanti al cancello Joel mi ha detto:
“Hai portato la pellicola?”
Ho annuito. Era nello zaino, come sempre, protetta come un bene prezioso.
Il maggiordomo ci ha accompagnati nello studio, una stanza ampia, con scaffali di legno scuro e tende pesanti. Dietro una scrivania imponente c’era Ernesto Bardelli, vecchio, ma ancora lucido. Aveva mani magre, curate, e uno sguardo tagliente, più affilato di molti giovani che avevo conosciuto. Indossava un completo grigio chiaro, elegante ma sobrio. Sul tavolo, una macchina da scrivere che sembrava ancora in uso.
Mi ha fatto cenno di accomodarmi.
“Lei è il signor De Giorgi.”
“Giusto.”
“E porta con sé ciò che Giulio Varetto non è mai riuscito a rendere pubblico.”
Non c’era bisogno di nascondere più nulla. Ho aperto lo zaino, ho poggiato la scatola della pellicola sul tavolo.
Joel era in piedi, dietro di me.
Bardelli ha allungato la mano, ha toccato appena il bordo della scatola.
“Questa scena non doveva uscire. Non per censura, ma per equilibrio.”
“Equilibrio o potere?”
Lui ha sorriso, senza ironia.
“La differenza, signor De Giorgi, la decide la Storia.”
Mi ha raccontato allora, senza interruzioni, come erano andate le cose. Nel maggio del ’46, pochi sapevano davvero come si sarebbe concluso il referendum. La Monarchia aveva ancora un forte sostegno, ma la Repubblica avanzava. Ci fu una riunione segreta, filmata per errore da un operatore dello Studio Luce. Vi parteciparono rappresentanti dei due schieramenti. L’intento? Evitare uno scontro civile, a ogni costo. Il compromesso fu semplice e micidiale: si sarebbe gestita la transizione con una narrazione unica, controllata. Un racconto pubblico dove i vinti sparivano silenziosamente e i vincitori mantenevano alcune vecchie strutture.
“La democrazia era troppo giovane per reggere certi strappi,” ha detto Bardelli. “Avevamo bisogno di stabilità, non di trasparenza.”
La pellicola di Giulio mostrava un frammento di quella riunione. Si vedevano i volti. Non bastava per una verità giuridica, ma era un pugno nello stomaco per chi aveva creduto che la Repubblica fosse nata solo grazie alla voce del popolo.
Gli ho chiesto perché, dovevano nasconderlo.
“Perché ogni verità ha un prezzo,” ha detto. “E noi abbiamo già pagato abbastanza con la guerra.”
Mi ha offerto un accordo. Potevo distruggere la pellicola subito, davanti a lui. In cambio, mi avrebbe consegnato una lettera firmata da Varetto, scritta pochi giorni prima della sua morte, in cui spiegava tutto.
“Ma non l’ha mai spedita,” ha aggiunto. “Aveva capito che la paura era più forte del coraggio.”
Ho guardato Joel. Lui non ha detto nulla. Ma nei suoi occhi c’era una domanda chiara: E tu, Giorgio, da che parte stai?
Ho preso la pellicola. L’ho stretta. Ho pensato a Giulio, a Carla, a Manfredi. Ho pensato alle ore passate a inseguire verità tra bobine dimenticate e interviste spezzate.
“Non voglio pubblicarla. Ma non la distruggerò.”
Bardelli mi ha fissato, come se non si aspettasse una scelta così.
“La metterò dove non potrà essere trovata facilmente. Ma se un giorno servirà, tornerà alla luce. La storia deve poter essere riletta, quando sarà pronta.”
Non ha risposto. Ma ha annuito, lentamente.
Siamo usciti dalla villa con la sensazione di aver chiuso un cerchio. Joel ha camminato accanto a me in silenzio. Arrivati alla fermata del bus, ha detto:
“Non sempre si può cambiare la storia. Ma si può decidere come raccontarla.”
La luce bianca, intensa mi ha riportato al presente, nel mio studio. In quello stesso istante un corriere ha bussato alla mia porte e mi ha consegnato un pacco. Dentro c’era la pellicola, avvolta, protetta, insieme a una breve nota: “Aprire solo se necessario.”
La verità è come una pellicola fragile. Puoi conservarla. Puoi nasconderla. Ma prima o poi la luce la attraversa. E rivela ogni cosa.
5 giugno 2025
Caro diario,
Mi sono svegliato alle sei e mezza, prima ancora che suonasse la sveglia. L’aria della stanza era densa, satura di pensieri non detti e di cose che aspettavano solo di essere affrontate. Ho guardato la valigia sotto il letto, quella con la pellicola dentro. Era ancora lì, chiusa a chiave, come se contenesse un cuore che batteva.
Quando mi sono avvicinato a Joel, ha detto:
“Oggi qualcuno verrà a cercarti.”
Non gli ho chiesto come facesse a saperlo. Con lui certe cose vanno così. Non serve capire tutto, basta fidarsi del ritmo degli eventi. E il ritmo, oggi, era diverso. Più teso, più preciso.
Mi sono vestito in fretta e ho messo lo zaino in spalla con la pellicola al suo interno, avvolta in due panni di cotone e chiusa in una custodia rigida. Sapevo che non potevo più lasciarla in albergo. Era diventata la chiave di tutto. E anche il bersaglio.
Siamo andati all’archivio dello studio Luce, non per guardare qualcosa, ma per incontrare qualcuno. Carla Bianchi ci aveva detto che lì lavorava Gianni Luparini, un ex collega di Varetto, oggi archivista e consulente. Pare fosse stato lui, mesi prima, a consigliare a Giulio di recuperare proprio quella bobina.
Joel ha detto che se c’era un anello debole nella catena, era Luparini. Non per codardia, ma per conoscenza. Chi sa troppo, prima o poi parla.
Quando siamo arrivati, l’edificio era ancora immerso nella luce bassa del mattino. Sembra un labirinto verticale, dove i ricordi prendono forma tra scale, manifesti e luci soffuse.
Abbiamo trovato Gianni Luparini nel seminterrato, tra scaffali di film muti e voci intrappolate nel nastro magnetico. Era un uomo alto, capelli bianchi, occhi chiari. Portava dei guanti sottili e maneggiava una scatola di pellicole con la cura di un restauratore d’arte.
Quando gli ho chiesto di Giulio Varetto, ha posato la scatola e mi ha guardato negli occhi.
“Voi chi siete?”
Mi sono presentato. Gli ho detto che seguivo il caso della sua morte, che volevo capire cosa ci fosse davvero in quel filmato. Non ho detto subito che l’avevo con me.
Lui ha sospirato.
“Giulio aveva la mania della verità. Non si fermava mai. Nemmeno quando capiva che stava pestando i piedi a gente molto più potente di lui. Io gli avevo solo segnalato che in un vecchio fondo non catalogato c’erano delle bobine interessanti. Non immaginavo che una di quelle contenesse una scena… compromettente.”
A quel punto ho tirato fuori la scatola con la pellicola. Gli occhi di Gianni si sono allargati.
“È l’originale?”
Ho fatto cenno di sì.
“Voglio sapere chi ha voluto che questa scena sparisse. E chi ha voluto far tacere Giulio.”
Lui ha scosso la testa.
“Ci sono cose, signor De Giorgi, che non si possono dire apertamente. Ma posso mostrarle chi gestiva gli archivi paralleli. C’erano dei nomi. Degli accordi. Persone che si muovevano fra politica, stampa e cultura. Gente che oggi siede in consigli d’amministrazione, fondazioni, e a volte dietro le quinte delle stesse istituzioni pubbliche.”
Mi ha passato un foglio, un elenco dattiloscritto. Alcuni nomi erano barrati, altri cerchiati. Tra questi ho riconosciuto Ernesto Bardelli, già dirigente del Ministero dell’Informazione negli anni ’40, poi “consulente culturale” negli anni ‘50. Un nome che era già saltato fuori, in forma indiretta, da una delle interviste che Joel e io avevamo visto nel documentario incompleto.
Joel si è avvicinato e ha detto:
“Bardelli non ha mai smesso di controllare la narrazione.”
Ho chiesto a Gianni dove potessi trovare Bardelli. Ha risposto che viveva isolato, in una tenuta sulle colline sopra Chieri. Ufficialmente in pensione, ma ancora attivo nel selezionare i contenuti che “rappresentano il Paese”.
Era chiaro che dovevamo andare da lui.
Nel tragitto in taxi, Joel mi ha raccontato un dettaglio che non conoscevo: Bardelli, nel 1946, era stato uno degli artefici della cosiddetta “Memoria Concordata”, un progetto con cui si doveva decidere cosa mostrare nei cinegiornali e cosa no. Una censura non imposta dall’alto, ma negoziata, con la stampa e con i partiti.
“Quello che non si vedeva,” ha detto Joel, “era più importante di quello che si vedeva.”
Arrivati alla villa, abbiamo trovato un cancello chiuso e una campana arrugginita. Ho tirato la cordicella. Dopo un minuto, una voce lenta ha risposto dalla porta di casa:
“Sì?”
Mi sono presentato, ho detto che avevo delle domande sul lavoro di Varetto. C’è stato silenzio per qualche secondo. Poi una frase fredda.
“Tornate domani.”
Siamo rimasti a fissare il cancello per un lungo momento. Ho guardato Joel che mi ha detto:
“Adesso siamo nel cuore della storia”.
Ed è vero. Ogni risposta che riceverò domani racconterà un altro passato. Un passato che non è mai finito. È solo in attesa di essere rivisto, un fotogramma alla volta.


4 giugno 2025
Caro diario,
Una pioggia fine e insistente mi ha dato il buongiorno nel passato. Le strade di Torino erano bagnate e scivolose, i passanti si muovevano in silenzio sotto ombrelli scuri. Ho dormito poco. La conversazione del giorno prima, il volto serio del giornalista al bar, l’ombra del falso funzionario... tutto mi si era aggrovigliato nella testa come una bobina impazzita.
“Oggi dobbiamo ascoltare chi ha smesso di parlare.” mi ha detto Joel appena l’ho raggiunto.
Ho capito subito che si riferiva al Cavalier Manfredi.
Avevo recuperato l’indirizzo grazie a Carla, che ci aveva raccontato che Manfredi viveva in collina, appena fuori Torino, in una vecchia casa colonica restaurata, piena di scaffali e scatole d’archivio. Pare avesse raccolto negli anni un patrimonio di pellicole e memorie che nemmeno gli archivi pubblici riuscivano a ricostruire.
Siamo saliti su un tram fino a una fermata ai margini della città, poi abbiamo camminato per quasi venti minuti sotto la pioggia, lungo una stradina di ghiaia. La casa era lì, circondata da alberi fradici e un silenzio che sembrava uscito da un film muto.
Ho suonato il campanello una volta sola. Dopo qualche minuto, una voce roca ha risposto dall’interno. La porta si è aperta lentamente. Il Cavalier Manfredi era più basso di come me lo immaginavo, con una giacca da camera e un foulard al collo. Aveva un volto scavato, da uomo abituato a guardare, più che a essere guardato.
“Cosa volete?” ha chiesto, diretto.
Mi sono presentato, ho spiegato che stavo cercando di capire cosa fosse successo a Giulio Varetto. A quel punto, qualcosa nei suoi occhi è cambiato. Ha esitato un attimo, poi ci ha fatto entrare.
La casa era un archivio vivente. Bobine, pellicole, scatole catalogate a mano, registratori, appunti. Ogni stanza aveva un odore diverso: celluloide, carta vecchia, muffa leggera. Ci ha fatto accomodare in una saletta con due poltrone consumate e un tavolo basso pieno di fascicoli.
“Giulio era un ingenuo,” ha detto Manfredi. “Credeva che si potesse raccontare tutto.”
Mi ha guardato come se volesse capire da che parte stavo.
“Ma certe verità,” ha continuato, “non sono fatte per essere raccontate. Sono fatte per essere sorvegliate.”
Gli ho detto della scena tagliata, del falso funzionario, della pellicola mancante. A quel punto ha allungato il braccio verso uno scaffale. Ha preso una scatola rossa e me l’ha poggiata sulle ginocchia.
“Qui dentro c’è l’originale,” ha detto. “Giulio me l’aveva affidata, sentiva di essere in pericolo. Aveva capito che qualcuno voleva sostituirla con una versione ripulita. Aveva paura.”
L’ho aperta con attenzione. Dentro, una pellicola da sedici millimetri, avvolta ordinatamente, con un’etichetta manoscritta: “Luce 47 – Integrale – Scena B3”.
Manfredi ci ha spiegato che quella sequenza mostrava una riunione riservata avvenuta nel maggio del 1946, poche settimane prima del referendum. Alcuni rappresentanti delle istituzioni monarchiche e repubblicane si erano incontrati in segreto per accordarsi su una transizione “pacifica”, ma il contenuto di quella trattativa non era mai stato reso pubblico.
“Giulio l’aveva trovata per caso tra i materiali che stavamo restaurando. L’aveva inserita nel suo documentario. Ma non ha fatto in tempo a proteggerla.”
Joel si è avvicinato alla finestra e ha detto, come se parlasse più a se stesso che a me:
“E qualcuno ha voluto che non la vedesse nessuno.”
Manfredi ha scosso la testa.
“No. Qualcuno ha voluto che la vedessero solo alcuni. Quelli che devono ricordare come stiano davvero le cose.”
L’ho guardato negli occhi.
“Lei ha visto chi è venuto a cercarla?”
“Una macchina nera, targa straniera. Erano in due. Hanno detto che erano dell’Istituto Luce. Volevano tutto il materiale. Io ho dato solo copie inutili. Ma Giulio, poveretto, aveva l’originale. E loro lo sapevano.”
A quel punto ho chiesto una cosa che mi girava in testa da ore.
“Perché lo ha lasciato solo?”
Manfredi ha abbassato lo sguardo.
“Perché anche io, come lui, ho avuto paura.”
Ci ha lasciato portare con noi la copia della sequenza. L’abbiamo infilata nello zaino con la stessa cura con cui si trasporta una prova. Perché in fondo, era proprio questo: la prova che qualcuno aveva ucciso non solo un uomo, ma un pezzo di verità.
Nel tragitto di ritorno Joel mi ha detto:
“Ora sai tutto. Ma sapere non basta. Devi decidere cosa farne.”
Abbiamo tra le mani una verità tagliata, e non sappiano ancora quanto possa far male.
3 giugno 2025
Caro diario,
Mi sono svegliato con il suono delle campane della chiesa vicino all’albergo. Erano le sette in punto. Mi sono stiracchiato nel letto e ho lasciato che i primi pensieri del giorno mi scorressero addosso senza opporre resistenza. Il filmato, quella sequenza, la voce registrata male... tutto mi tornava alla mente come una pellicola appena riavvolta. Joel era già in piedi, come sempre. Si era avvicinato al lavandino e stava osservando il rubinetto gocciolare, come se anche lì dentro potesse esserci un indizio.
Mi ha guardato e mi ha detto:
“Ieri abbiamo visto la cornice. Ora dobbiamo trovare il quadro completo.”
Non parla mai per frasi troppo lunghe, ultimamente. Ma quelle poche parole bastano sempre a farmi muovere.
Avevo appuntato due nomi sul mio taccuino la sera prima: Ennio, il proiezionista, e Carla Bianchi, l’assistente del regista. Due persone che avevano avuto accesso diretto alla pellicola e al montaggio finale. La prima domanda che mi ronzava in testa era: Chi, oltre a loro, aveva potuto vedere quella scena tagliata?
Joel ha suggerito di tornare da Ennio. Abbiamo trovato il proiezionista nel suo rifugio al piano terra del cinema, seduto su una sedia accanto alla cabina di proiezione. Aveva una tazza di caffè tra le mani e un’espressione da uomo che ha visto troppe pellicole e troppe verità taciute.
Mi sono seduto accanto a lui e gli ho chiesto:
“Lei ha mai mostrato quel filmato integrale a qualcun altro, prima della morte del regista?”
Ennio ha fatto un lungo respiro, poi ha scosso la testa.
“Quel giorno Giulio m’ha detto: Questa la guardi solo lei, Ennio. Poi la chiude a chiave e non ne parli con nessuno. Io ho fatto come m’ha chiesto… tranne una volta.” Mi ha guardato, abbassando la voce. “Una sera, due settimane fa, è passato un tizio… elegante, capelli lisci, baffi fini. Ha detto che veniva dal Ministero, che voleva visionare i contenuti per un’approvazione ufficiale. Io ho ceduto. Gli ho fatto vedere quel pezzo. Ma non sapevo…”
Joel mi ha fatto un cenno con il capo. Aveva già capito prima di me.
“Non era del Ministero.”
Lo sapevamo entrambi. Quel tipo aveva visto la scena che dava fastidio a qualcuno e aveva fatto partire la macchina del silenzio.
Ho chiesto a Ennio se ricordasse altro.
“Aveva un anello con un’aquila incisa. E parlava con accento romano.”
Era un dettaglio piccolo, ma concreto. L’anello, l’accento, la falsa identità. Dovevamo capire chi potesse essere.
Ci siamo spostati in centro, in un bar frequentato da giornalisti e addetti alla comunicazione politica. Joel pensava che lì potevamo trovare chi sapeva qualcosa. Abbiamo ordinato due caffè e ci siamo seduti al banco a osservare. A un certo punto, è entrato un uomo di mezza età, completo chiaro, giornale sottobraccio. Joel l’ha riconosciuto subito: “È il direttore di una rivista culturale vicina al Partito Repubblicano. Era nel documentario che abbiamo visto.”
Mi sono avvicinato con cautela. Gli ho chiesto se conoscesse Giulio Varetto. Ha fatto sì con la testa, ma la risposta è stata gelida.
“Lo conoscevano tutti. Ma negli ultimi tempi si era messo a scavare dove non doveva.”
Gli ho chiesto che intendeva.
“Stava lavorando a un documentario di memoria, ma ha cominciato a inserire pezzi di archivio non autorizzati. Cose che non facevano parte della narrazione ufficiale. Gente che si riuniva in segreto, accordi fra vincitori e vinti. Quel tipo di roba.”
Avevo capito. Il documentario conteneva una verità scomoda, una scena che dava fastidio a chi voleva raccontare un’Italia pulita, rinata senza zone d’ombra. Ma la storia non è mai pulita. È fatta di compromessi.
Tornando in albergo, Joel ha detto una frase che mi è rimasta impressa:
“Non cercare chi ha ucciso Varetto. Cerca chi aveva interesse a farlo tacere. La differenza è sottile, ma cruciale.”
Mi sono seduto alla scrivania della camera, ho steso tutti gli appunti e ho cominciato a tracciare collegamenti. C’era la scena scomparsa, c’era il falso funzionario, c’era la rete di giornalisti e archivisti legati a Varetto. Ma mancava ancora un elemento.
All’improvviso ho ricordato un nome che Carla aveva accennato il giorno prima, quasi distrattamente: Cavalier Manfredi, ex dirigente dello Studio Luce, oggi in pensione. Pare fosse stato lui a conservare molte delle pellicole originali nei primi mesi post-referendari.
Ho chiesto a Joel cosa ne pensasse.
Ha sorriso, poi ha risposto:
“È la chiave che ti mancava. Lui sa dove finisce il taglio e dove comincia la verità.”
Varetto ha pagato con la vita il desiderio di raccontare.


2 giugno 2025
Caro diario,
Il sole filtrava dalle persiane dell’albergo in cui abbiamo passato la notte, uno di quei piccoli hotel a gestione familiare, con mobili in legno scuro, profumo di cera e il ticchettio continuo di un orologio a pendolo nella hall.
Joel era già in piedi, seduto su una poltroncina vicino alla finestra. Guardava fuori in silenzio, come se stesse riflettendo su qualcosa. Ho osservato la sua immagine allo specchio. Indossava lo stesso completo grigio del giorno prima, con una camicia chiara abbottonata fino al collo. Sembrava inquieto, anche se il suo viso non lo lasciava trasparire. Ho imparato a riconoscere i suoi silenzi: quando sono troppo lunghi, vuole che sia io a prendere delle decisioni.
Siamo scesi a fare colazione. Tutti ci guardavano con aria ammirata… si era sparsa la voce che ero un detective e Joel il mio assistente.
Dopo il caffè e due fette di pane tostato con marmellata, roba semplice, ma buona, ci siamo incamminati verso il Cinema Lux. Dovevamo tornare sul posto, cercare di ottenere più informazioni su quella sequenza mancante, sul regista e su chi fosse entrato nel suo ufficio quella mattina prima della proiezione.
Il cinema era chiuso al pubblico, due guardie erano davanti all’ingresso principale. Mentre stavamo per entrare, una donna sulla quarantina, vestita con un completo nero e un foulard di seta a pois, si è avvicinata e si è presentata come Carla Bianchi, assistente del regista. Lavorava con lui da oltre dieci anni, da quando ancora producevano cinegiornali per i notiziari settimanali. Le ho detto che stavamo cercando di capire cosa potesse essere successo. Carla all’inizio ci ha guardati con sospetto, poi si è lasciata convincere. Forse aveva bisogno di parlare, di sfogarsi.
Siamo andati nell’ufficio dove il regista era stato trovato morto. La stanza era rimasta chiusa a chiave dopo il ritrovamento del cadavere, ma lei ne aveva una copia. Tutto era rimasto com’era: la scrivania in legno, la poltrona con i braccioli in pelle, la bobina ancora poggiata sul tappeto. A terra, un mozzicone di sigaretta, non del regista, che non fumava mai. Lo aveva detto lei stessa.
Carla ci ha raccontato che Giulio Varetto, il regista, stava preparando da mesi quella versione del documentario. Ma nelle ultime settimane era cambiato. Più nervoso, più chiuso. Parlava spesso di “una scena che non doveva esserci”. Aveva ricevuto telefonate anonime, lettere senza firma. Aveva anche chiesto una seconda chiave dell’archivio, che teneva sempre con sé.
A quel punto Joel si è avvicinato alla bobina e ha puntato il dito su un’etichetta in parte strappata. Sotto la scritta “Versione 2”, si intravedeva un’altra parola cancellata: forse “Integrale” o forse “Confidenziale”.
“Quella è la copia su cui stava lavorando. Ma non l’ha mai fatta proiettare. Ieri abbiamo usato la versione precedente, quella ufficiale”, ha detto Carla. E poi ci ha confessato che il regista le aveva chiesto, una settimana prima, di visionare una sequenza particolare. “Una scena montata da poco, fuori ordine… come se fosse un’aggiunta dell’ultimo minuto.”
Carla non ricordava molto, ma ha parlato di una stanza con luci basse, uomini in giacca e cravatta seduti attorno a un tavolo, e qualcuno che parlava di “accordi riservati” per la gestione dei voti referendari. Sembrava una riunione politica, ma non c’erano didascalie, né voce narrante. La qualità era pessima, la pellicola graffiata. Lei stessa pensava fosse solo materiale d’archivio da scartare.
Joel mi ha guardato intensamente in quel momento. Forse il regista aveva trovato qualcosa che non doveva essere svelato. O forse, semplicemente, voleva raccontare una verità che altri volevano cancellare.
Abbiamo chiesto a Carla se potessimo visionare quella sequenza. Lei ci ha portati nell’archivio al piano inferiore, una stanza con scaffali pieni di bobine, alcune catalogate, altre impolverate. Dopo una ventina di minuti di ricerca, abbiamo trovato una scatola metallica con un’etichetta ingiallita: “Luce 47 – Grezzo A5”. L’abbiamo aperta con cura. Dentro, la pellicola avvolta su se stessa, senza indicazioni.
Abbiamo chiesto al proiezionista, un certo Ennio, se poteva mostrarcela.
Nel buio della sala proiezioni, la sequenza è partita. Immagini sgranate, audio disturbato. Una stanza. Sei uomini. Un foglio su cui qualcuno scriveva. Poi, una voce: “Questo passaggio deve restare riservato fino a quando non avremo il consenso dei vertici.” Nessun nome, nessuna data. Ma bastava poco per capire che si trattava di qualcosa di grosso.
Finita la proiezione, Joel ha sussurrato: “Non era un documentario. Era un avvertimento.” E io ho capito che stavamo appena cominciando le nostre indagini.
Caro diario,
Stamattina mi sono svegliato prima del solito, con quella strana sensazione che ormai conosco bene. Quando il diario mi chiama, lo fa in silenzio, senza spiegazioni. Eppure, ogni volta che lo apro e trovo una nuova scritta dove prima c’era solo carta bianca, so che qualcosa sta per accadere. Ho fatto colazione in fretta, poi ho preso il diario, l’ho aperto nella giornata di oggi e ho trovato la fatidica frase.
Torino, Primo giugno 1947 – Cinema Lux, ore 10.30.
La luce bianca mi ha avvolto e, in una frazione di secondo, mi sono ritrovato davanti alla stazione di Porta Nuova. Ad aspettarmi c’era già Joel, appoggiato alla parete dell’ingresso con il suo sorriso furbesco e il classico abbigliamento da folletto, che solo io vedo quando siamo nel passato. Il riflesso alla porta mostrava però un ragazzo di 25 anni, bello ed elegante.
Torino mi è apparsa in un silenzio che oggi non esiste più. Era una domenica mattina, e la città sembrava sospesa tra la speranza e il ricordo della guerra. I tram verde scuro della società “Belga” erano pieni, le insegne sulle botteghe portavano nomi che oggi nessuno ricorda più. Abbiamo camminato per qualche minuto in direzione di via Roma, poi nella Galleria San Federico dove un’insegna indicava il Cinema Lux.
Fuori c’era una piccola folla. Molti erano in abito scuro, con le donne in tailleur e capelli raccolti. Si capiva che era un evento importante. Il primo anniversario della Repubblica, dopotutto, non era una data qualsiasi. Sul manifesto all’ingresso c’era scritto: Proiezione speciale – Documentario celebrativo dello Studio Luce – La Nascita della Repubblica. Regia di Giulio M. Varetto. Il nome non mi diceva niente, ma il tono del manifesto lasciava intendere che si trattava di un lavoro ufficiale, forse anche supervisionato dalle istituzioni.
Siamo entrati senza troppe difficoltà. Joel ha finto di avere un invito da parte di un giornale parigino, e come al solito, l’hanno lasciato passare senza battere ciglio. La sala era elegante, con le poltrone in velluto rosso e il soffitto decorato da stucchi e lampadari di cristallo. Ci siamo seduti a metà, in una posizione che ci permetteva di osservare sia lo schermo che le persone presenti.
La proiezione è cominciata puntualissima. Sullo schermo sono apparsi i volti di De Gasperi, di Nenni, di donne che votavano per la prima volta. C’erano scene dei seggi del 2 giugno 1946, poi il discorso del re in esilio, i funerali di guerra, le prime manifestazioni per la pace. La voce narrante era profonda, autorevole, con quel tono un po’ didascalico tipico dei cinegiornali del tempo. Tutto sembrava filare liscio, fino a quando, quasi impercettibilmente, l’immagine ha avuto un piccolo tremolio. Pochi secondi. Forse meno.
Joel mi ha dato una gomitata leggera, proprio per farmi notare quel micro-disturbo. Subito dopo, la proiezione è continuata normalmente, con immagini di bambini che sventolavano bandiere, lavoratori che sorridevano, e la scritta “Fine” accompagnata dall’inno di Mameli. Il pubblico ha applaudito con educazione. Alcuni si sono alzati in piedi. Mentre tutti uscivano, nel corridoio si è sparsa una voce rapida e sorda, come una corrente d’aria fredda. “Il regista… è morto”. All’inizio ho pensato a uno scherzo di pessimo gusto. Poi ho visto correre due uomini verso l’ufficio in fondo alla galleria laterale, vicino alla cabina di proiezione. Siamo usciti dalla sala e li abbiamo seguiti a passo svelto, cercando di non attirare l’attenzione.
La porta dell’ufficio era aperta. Dentro, disteso sulla moquette, c’era un uomo sui cinquant’anni. Il volto era livido, gli occhi aperti, e intorno al collo, una striscia di pellicola cinematografica, stretta come una cravatta letale. Sul tavolo, una bobina aperta, con un’etichetta scritta a mano: “Versione 2 – Taglio integrale”.
La polizia è arrivata poco dopo. Subito hanno chiesto chi fossimo e perché eravamo sulla scena del delitto. Prima che potessi rispondere, un poliziotto ha fissato lo sguardo verso di me.
“Quale onore avere il detective De Giorgi qui a Torino. In questo modo riusciremo a risolvere il caso in pochi giorni.”
Mi dimentico sempre che la mia fama di detective dura nel tempo, nel vero senso della parola. Non dovendo dare altre spiegazioni, mi sono messo subito al lavoro e, ho chiesto a Joel di ordinare come prima cosa di chiudere l’area e allontanare i curiosi. Ho notato un dettaglio importante: tra i rulli della pellicola sparsa sul pavimento, c’era una porzione mancante, come se qualcuno l’avesse tagliata via di proposito. Non si trattava di un errore di montaggio. Qualcuno aveva voluto nascondere qualcosa.
Joel mi ha guardato senza dire una parola. In quegli sguardi muti ci capiamo sempre: c’è una verità lì dentro, qualcosa che ha dato fastidio a qualcuno. Forse un dettaglio nascosto nel film. Forse quella piccola interruzione che abbiamo notato durante la proiezione. Dopo aver disposto la rimozione del cadavere ho chiesto di sigillare e far sorvegliare tutte le uscite del cinema. Siamo usciti in silenzio. Torino era ancora lì, con le sue strade acciottolate e il cielo limpido. Ma qualcosa era cambiato. E anche se non avevamo ancora capito cosa, sapevamo che non potevamo andarcene. Non ancora.
