IL DIARIO DI GIORGIO DE GIORGI (Detective per caso)

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Il Diario di Giorgio De Giorgi

22 maggio 2025

Caro diario,

sono tornato all’acquario di Genova, deciso a capire di più su quel misterioso messaggio apparso tra le bolle d’aria. L’idea che qualcuno abbia inserito deliberatamente un avvertimento e che il 26 maggio possa accadere qualcosa di grave non mi dà pace.

Sono arrivato presto per essere il primo ad entrare. Volevo osservare tutto con calma e cercare di cogliere dettagli che ieri mi erano sfuggiti.

Mi sono diretto subito verso la grande vasca dove avevo visto il messaggio. La stanza era tranquilla, illuminata solo dalla luce azzurra dell’acqua. Mi sono fermato davanti al vetro, cercando di capire se il dispositivo nascosto tra le rocce fosse ancora lì.

E c’era. Sembrava un piccolo cilindro grigio, ben mimetizzato tra le decorazioni della vasca. Non sembrava appartenere all’acquario; aveva un aspetto troppo tecnico, come se fosse stato progettato per uno scopo specifico.

Mi sono chinato per osservare meglio, cercando di non attirare l’attenzione. Ho notato che una piccola luce verde lampeggiava sul dispositivo. Non sono un esperto di elettronica, ma quel dettaglio mi ha fatto pensare a un trasmettitore o a un timer. Non posso rimuoverlo perché dovrei entrare dentro la vasca e la cosa desterebbe sicuramente dei sospetti

Mi sono appartato e ho scritto a Joel.

Ho trovato un dispositivo sospetto nella vasca. Potrebbe essere collegato al messaggio. Cosa devo fare?

La risposta è arrivata dopo pochi istanti.

Osserva e ascolta. Le risposte sono intorno a te.

Quelle parole, enigmatiche come sempre, mi hanno spinto a guardarmi intorno con più attenzione. Chi avrebbe potuto piazzare quel dispositivo. Era opera di un dipendente? Di un visitatore? O di qualcuno che conosceva bene l’acquario e le sue procedure di sicurezza?

Nel frattempo, ho deciso di esplorare altre aree dell’acquario, cercando eventuali indizi o dispositivi simili. Ho notato che alcune vasche erano posizionate in punti strategici, come se potessero essere sfruttate per attirare l’attenzione o per nascondere qualcosa.

Mentre camminavo tra i corridoi, ho incrociato uno degli addetti alla manutenzione. Era un uomo sulla cinquantina, con l’aria di chi conosce ogni angolo di quel posto. Ho chiesto come funzionavano i sistemi di aerazione delle vasche e se era possibile manipolarli dall’esterno. Lui mi ha guardato con un misto di sospetto e interesse, forse era la prima volta che qualcuno gli chiedeva qualcosa di così particolare. In ogni caso mi ha risposto che i  sistemi sono controllati da una centralina principale e solo il personale autorizzato ha accesso alla strumentazione. Ho incalzato con un’altra domanda per capire se poteva esserci la possibilità che qualcuno decidesse di aggiungere qualcosa, come un dispositivo esterno. L’uomo si è fermato un momento per riflettere e poi ha chiaramente detto che non era impossibile, ma richiedeva una conoscenza dettagliata delle vasche. Chiunque lo avesse fatto, avrebbe dovuto sapere esattamente dove mettere le mani.

È chiaro che il colpevole non è un dilettante. Deve conoscere bene l’acquario, o almeno deve avere avuto accesso a informazioni riservate.

Nel pomeriggio, ho deciso di studiare la mappa dell’acquario. Ho notato che alcune aree, come i magazzini e le sale tecniche, sono accessibili solo con un badge autorizzato. Ho deciso di chiedere informazioni al responsabile della sicurezza, fingendo di essere un visitatore curioso.

Il responsabile mi ha riferito che solo il personale tecnico e alcuni addetti alla sicurezza hanno l’autorizzazione all’accesso alle aree riservate. C’è un sistema di registrazione, quindi si sa perfettamente chi entra e chi esce.

È possibile che il colpevole abbia usato un badge rubato per accedere alle aree riservate e piazzare il dispositivo.

Non ho ancora nulla di chiaro e preciso, ma non posso destare sospetti con la mia presenza costante tra le vasche. Non posso neanche informare qualcuno, anche perché solo io ho visto le bolle con le lettere e mi prenderebbero per pazzo. Ho quindi deciso di fare un ultimo giro nella sala delle meduse, il luogo in cui avevo visto il messaggio. Ho cercato di osservare ogni minimo particolare: le bolle, le luci, persino il comportamento dei visitatori intorno a me.

In quel momento ho notato una donna, vestita in modo sobrio che stava osservando la vasca con troppa insistenza. Non sembrava essere lì per ammirare le meduse, ma piuttosto per controllare qualcosa. Mi è sembrata la stessa donna che avevo visto attraverso la vasca il giorno precedente. Quando si è accorta che la stavo guardando, si è allontanata rapidamente, scomparendo tra la folla. Ho provato a seguirla, ma l’ho persa di vista nei corridoi affollati.

Il 26 maggio è dietro l’angolo, e se non risolverò l’enigma prima di quella data, potrebbe essere troppo tardi.

Devo scoprire chi ha piazzato quel dispositivo e cosa intende fare. La sicurezza di molte persone potrebbe dipendere da ciò che riuscirò a trovare.

21 maggio 2025

Caro diario,

oggi mi sono concesso una pausa dalle solite indagini e ho deciso di visitare l’acquario di Genova, uno dei più grandi e famosi d’Europa. Era da tempo che volevo vederlo, ma non avevo mai trovato l’occasione. Stamattina, complice una giornata di sole e la voglia di cambiare aria, ho preso un treno e mi sono diretto verso il porto antico.

L’acquario si è rivelato ancora più spettacolare di quanto immaginassi. Appena entrato, sono stato accolto da un’enorme vasca che sembrava abbracciarti con i suoi vetri curvi, contenenti migliaia di litri d’acqua. Pesci di ogni forma e colore si muovevano con grazia, creando uno spettacolo che era quasi ipnotico.

Ho iniziato il mio percorso lentamente, prendendomi il tempo per osservare ogni vasca. Mi fermavo a leggere le descrizioni degli animali, affascinato da quante meraviglie marine non conoscessi. Le razze sembravano volare nell’acqua, e i cavallucci marini si muovevano con una lentezza che era quasi meditativa.

Dopo circa un’ora, sono arrivato davanti a una delle vasche più grandi: un cilindro imponente che ospitava squali, razze e banchi di pesci argentati. Mentre osservavo lo spettacolo, qualcosa ha attirato la mia attenzione. Sul vetro, riflessa tra i movimenti ondulatori dell’acqua, è apparsa una figura.

In un primo momento ho pensato fosse il riflesso di uno dei visitatori alle mie spalle, ma quando mi sono girato, non c’era nessuno. Era strano, perché il riflesso sembrava chiaro, quasi reale. Sono rimasto immobile per qualche istante, cercando di capire cosa avessi visto. Forse era solo un gioco di luci, mi sono detto, e ho cercato di non pensarci troppo.

Dopo aver lasciato quella vasca, ho proseguito il mio percorso. Mi sono soffermato davanti a una vasca dedicata alle meduse, creature eteree che sembravano danzare nell’acqua. È stato lì che ho notato qualcosa di ancora più strano.

Le bolle d’aria che salivano verso la superficie formavano un movimento insolito. All’inizio pensavo fosse un effetto del sistema di filtraggio, ma osservando meglio, mi sono accorto che le bolle sembravano seguire un ritmo preciso, quasi intenzionale. E poi l’ho visto chiaramente: le bolle stavano formando lettere.

Ho fatto un passo indietro, incredulo. Le lettere non erano casuali; si componevano per creare una frase. Dopo qualche secondo, il messaggio è diventato leggibile: “Attenzione. 26 maggio. Pericolo.”

Sono rimasto lì, bloccato, cercando di capire cosa stesse succedendo. Chi aveva creato quel messaggio? E come era possibile che le bolle potessero formare parole così precise? Era un avvertimento, questo era chiaro, ma rivolto a chi? E quale pericolo ci sarebbe stato il 26 maggio?

Ho deciso di cercare subito qualcuno dello staff per segnalare ciò che avevo visto. Un giovane addetto, che si trovava poco distante, mi ha ascoltato con uno sguardo incredulo. Quando l’ho portato davanti alla vasca e gli ho indicato le bolle, il messaggio era scomparso.

Lui mi ha guardato ancora con un’espressione di cortesia forzata.

“A volte il sistema di aerazione può creare movimenti strani,” ha detto. “Ma le assicuro che non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

Non ero convinto, ma non avevo prove per insistere. Ho chiesto scusa per il disturbo e poco dopo sono tornato indietro per osservare di nuovo la vasca per vedere se il messaggio sarebbe ricomparso. Mi sono seduto su una panca poco distante, cercando di non attirare troppo l’attenzione.

Dopo circa mezz’ora di osservazione una nuova figura, attraverso i vetri della vasta, ha attirato la mia attenzione. Questa volta era Joel. Mi sono voltato e lui era vicino a me, sorridente. Gli ho riferito che avevo visto un messaggio tra le bolle d’aria della vasca e che, quel messaggio, parlava di un pericolo il 26 maggio.

Lui, come sempre mi ha guardato fisso negli occhi e ha semplicemente detto: “Indaga. Il tempo è contro di noi,” poi mi ha sorriso e si è allontanato scomparendo in mezzo alla folla.

Sono andato più vicino alla vasca. Ho cercato di osservare tutto nei minimi dettagli: il movimento delle bolle, le luci riflesse, persino il comportamento dei pesci. Ed è allora che ho notato un piccolo dispositivo attaccato al vetro della vasca, nascosto tra le rocce decorative. Sembrava un trasmettitore o qualcosa di simile. Purtroppo, l’altoparlante comunicava la chiusura dell’acquario.

Ho deciso di segnare la sua posizione per tornarci domani con più calma. Forse è collegato al messaggio che ho visto?

Volevo tornare a casa in serata ma, la situazione che si è creata mi ha costretto a prendere una stanza in un hotel nei pressi dell’acquario. Dopo cena ho ripensato a quanto successo e ho cercando di dare un senso a tutto. Chiunque avesse creato quel messaggio, lo aveva fatto con precisione e intelligenza. L’uso delle bolle e il posizionamento del dispositivo indicavano una pianificazione meticolosa. E chi era la donna che avevo visto attraverso la vasca dei pesci?

Non riesco a togliermi dalla mente quella data: 26 maggio. È una data precisa, e se davvero c’è un pericolo imminente, devo scoprire di cosa si tratta prima che sia troppo tardi.

20 maggio 2025

 Caro diario,

Sono stato svegliato dal commissario Smith che mi ha detto di avere un’ultima informazione, qualcosa che poteva chiudere il cerchio. Mi sono precipitato al comando, curioso di sapere di cosa si trattasse.

“Abbiamo trovato un indirizzo più recente legato a Camille Gaston,” ha detto. “Si trova a Perth, sempre in Australia. Ma c’è di più: sembra che abbia cambiato nuovamente nome nel 2005. Ora si fa chiamare Claire Rosebrun.”

Questo nuovo nome mi ha lasciato perplesso. Tre identità diverse, ognuna usata per ricostruire una vita lontana da quella che Clara aveva lasciato in Italia. Ma questa volta il suo nome era quasi simile. La mia curiosità è cresciuto, ma anche il rispetto per questa donna che aveva fatto di tutto per proteggere la sua libertà.

Tornato in albergo, mi sono seduto davanti al robot che aveva dato il via a tutto. L’ho a lungo, chiedendomi se avrei mai scoperto chi me lo avesse inviato e perché. Ho deciso di girare la manovella un’ultima volta, senza aspettarmi nulla di nuovo.

Con mia grande sorpresa, la mano dello scrivano si è mossa di nuovo. Questa volta ha scritto una sola parola: “Grazie.”

Sono rimasto immobile, fissando quel piccolo foglio con incredulità. Era come se il robot sapesse che il mio compito era terminato, che avevo fatto tutto ciò che era in mio potere per portare alla luce la storia di Clara. Ma da chi proveniva quel messaggio? E chi aveva voluto che io scoprissi la sua verità?

Ho scritto a Joel per cercare risposte.

Joel, chi mi ha inviato questo robot? E perché?

Non sempre è necessario sapere chi muove i fili. A volte, basta sapere di aver fatto la cosa giusta.

Nel pomeriggio, ho deciso di scrivere una lettera. Era indirizzata a Clara o, meglio, a Claire Rosebrun, se quello era ancora il suo nome. Ho scritto di tutto ciò che avevo scoperto, partendo dal robot ricevuto a casa.

Le ho detto che non la cercavo per costringerla a rivivere il passato, ma solo per dirle che la sua storia mi aveva toccato profondamente. Ho terminato la lettera con una promessa: “Rispetterò la tua scelta e non interferirò con la tua vita.”

Ho lasciato la lettera, e un mio biglietto da visita, nella buca della posta di quella che avrebbe dovuto essere casa sua. Clara, o Camille, o Claire, meritava di essere lasciata in pace, di vivere la vita che aveva scelto senza ombre del passato, o del presente, a disturbarla. Appena lasciata la lettera, la classica luce bianca mi ha riportato nel presente… solo di un giorno, ma pur sempre nel presente.

Prima di cena, ho deciso di fare un’ultima ricerca sulla rete clandestina che aveva aiutato Clara a fuggire. Ho scoperto che il gruppo era stato attivo per diversi decenni, assistendo donne in situazioni simili a quella di Clara. Non avevano un nome ufficiale, ma erano noti per essere estremamente discreti ed efficaci.

Chissà quante altre storie come quella di Clara ci sono state, o ci sono, nel mondo. Quante donne hanno dovuto lasciare tutto per sfuggire a una vita che non hanno scelto? E quante hanno trovato il coraggio di ricominciare da capo, proprio come aveva fatto lei?

Prima di andare a dormire, il classico suono che annuncia l’arrivo di una email, desta la mia attenzione. Con mia grande sorpresa era un messaggio di Clara:

“Carissimo Giorgio De Giorgi. Non so come sia venuto in possesso del robot e non riesco a capire come abbia fatto a lasciare la lettera a casa mia. Le posso garantire che dopo quasi quarant’anni di anonimato, ricevere un messaggio indirizzato alla mia “vera” persona mi ha lasciato veramente di sasso. Se avrà modo di parlare con qualcuno della mia famiglia le chiedo solamente di riferire che ho trovato la pace che cercavo. Questo è quello che conta. Cordialità, Clara Rosa.”

Il mio dito ha prevalso rispetto al mio pensiero e il pulsante rispondi è stato attivato. Ma il messaggio del sistema operativo che annunciava l’inesistenza di quell’indirizzo email ha chiuso definitivamente questa storia.

Non avrà altre informazioni su Clara Rosa, ma so abbastanza per rispettare la sua scelta di vita. Unico suo ricordo resterà quel robot inviatomi da chissà chi e il suo messaggio finale, “Grazie.”

Questa è stata un’avventura diversa dalle altre. Non ci sono stati crimini da risolvere o colpevoli da arrestare, ma solo una verità nascosta che meritava di essere portata alla luce. E ora che tutto è finito, posso chiudere questa pagina con un senso di pace.

Ovunque tu sia, Clara, spero che tu stia vivendo la vita che hai scelto. E spero che tu sappia che la tua storia non sarà mai dimenticata.

19 maggio 2025

 Caro diario,

La giornata è iniziata con una telefonata di Smith. “Mister Giorgio Rosa, ho trovato qualcosa di interessante,” mi ha detto. “Il passaporto usato da sua sorella nel 1987, per raggiungere l’Australia, è stato emesso sotto un nome falso, ma c’è una connessione interessante.”

“Quale connessione?” ho chiesto, già pronto con carta e penna per prendere appunti.

“Il nome sul passaporto era Camille Gaston,” ha spiegato Smith. “Il documento era stato rilasciato grazie a un contatto con una rete clandestina che aiutava le donne a sfuggire da situazioni di violenza. Lei non era a conoscenza di questa situazione di sua sorella?”

Sono rimasto sul vago anche perché non potevo inventarmi altre scuse. Devo dire però che questa rivelazione mi ha colpito profondamente. Clara non era solo scappata; era stata aiutata da persone che credevano nella sua causa. Questo aggiungeva un nuovo livello alla sua storia, dimostrando che il suo coraggio era stato accompagnato da una rete di sostegno.

Dopo aver riordinato le informazioni, ho deciso di fare nuovamente un passo indietro e ricostruire il percorso di Clara. Mi sono immaginato il momento in cui aveva preso la decisione di fuggire: i dubbi, la paura, e, infine, il grande passo. Forse si era confidata con qualcuno, una persona che l’aveva messa in contatto con quella rete clandestina.

Mi chiedo anche cosa sia successo al suo fidanzato, Jacques Lemoine. Aveva accettato la sua fuga o aveva cercato di trovarla?

Nel pomeriggio, ho ricevuto da Casale, su whatsapp delle foto di vecchi articoli di giornale che parlavano della scomparsa di Clara e delle reazioni della sua famiglia. Uno raccontava che il padre di Clara, Marcello Rosa, aveva dichiarato alla stampa che la sua figlia maggiore era “semplicemente confusa” e che sarebbe tornata presto a casa.

Quella dichiarazione mi suonava falsa, come se Marcello stesse cercando di proteggere la sua reputazione più che preoccuparsi realmente di sua figlia. Ma un altro dettaglio mi ha colpito: in una lettera inviata al giornale, Jacques Lemoine scriveva che sperava che Clara tornasse per il loro matrimonio. “L’ho amata da sempre, e continuerò ad amarla, qualunque cosa accada,” aveva scritto.

Era una frase romantica, ma anche inquietante. Sembrava più un tentativo di controllo che una reale espressione di amore.

Ho deciso di tornare al commissariato di Sydney e ho chiesto a Smith se potesse trovare informazioni su Camille Gaston. Così davo l’impressione di interessarmi realmente a “mia sorella” Dopo qualche ora, mi ha richiamato con una scoperta interessante.

“C’è un record per Camille Gaston,” mi ha detto. “Ha lavorato come insegnante di musica in una scuola di Sydney per diversi anni, ma sembra che abbia cambiato nome di nuovo intorno al 1995. Da quel momento, non ci sono altre tracce.”

Questa nuova informazione mi ha lasciato perplesso. Perché Clara ha cambiato identità una seconda volta? Era forse preoccupata che qualcuno la stesse cercando?

Tornando in albergo, ho deciso di dedicarmi al robot. Girando la manovella, ho osservato i suoi movimenti, sperando che potesse offrirmi qualche nuovo indizio. Ma questa volta non ha scritto nulla. È rimasto immobile, come se avesse già svolto il suo compito.

Ho scritto a Joel nel diario, chiedendogli se sapesse qualcosa sul secondo cambiamento di identità.

Clara ha scelto di sparire due volte per proteggere la sua libertà.

Clara non stava solo fuggendo da un matrimonio indesiderato; stava costruendo una vita in cui nessuno avrebbe potuto controllarla. Ma chi o cosa l’aveva spinta a cambiare identità una seconda volta?

Ho passato la serata a riflettere su tutto ciò che avevo scoperto. Clara era una donna che aveva scelto di riscrivere la sua storia, sfidando le aspettative della sua famiglia e della società. Aveva lasciato tutto: la sua casa, i suoi amici, la sua identità, per inseguire una vita che potesse chiamare sua.

Non so se la troverò, ma in un certo senso non importa. Clara ha fatto la sua scelta, e ha trovato la libertà che cercava.

18 maggio 2025

 Caro diario,

oggi ho continuato a scavare nella storia di Clara Rosa, cercando di comprendere appieno la sua decisione e il mondo che si è lasciata alle spalle. Non posso fare a meno di chiedermi come sia riuscita a costruire una nuova vita in un luogo così distante, completamente diversa da quella che aveva in Europa.

La giornata è iniziata con una visita al comando di polizia locale. Mi ha accolto il commissario Smith. Ho spiegato, inventando chiaramente la storia, che stavo cercando mia sorella Clara per informarla del decesso dei nostri genitori.

“Non ho più sue notizie da ormai dieci anni e devo darle un oggetto che nostro padre aveva fatto per lei.” Smith ha annuito, capendo che avevo bisogno di chiudere il cerchio. Ha fatto fare delle ricerche e poco dopo mi ha passato un fascicolo con alcune informazioni.

“Abbiamo trovato un indirizzo associato al passaporto di Clara Rosa,” ha detto. “Un piccolo appartamento qui in città. Non ci sono altre tracce recenti, ma è un punto di partenza.”

Ho ringraziato e mi sono diretto a destinazione con un dubbio: se è bastato chiedere alla polizia locale dove vivesse Clara… perché nessuno fino ad ora aveva scoperto dove fosse scomparsa?

“Semplicemente perché è il diario che ti sta portando da lei… senza di lui, e senza di me, non saresti neppure qui a Sydney.” ha detto Joel affiancandosi a me di sorpresa.

Ho deciso di ricostruire con lui il possibile viaggio di Clara. Doveva essere stato difficile lasciare le sue origini, soprattutto senza dirlo a nessuno.

Mi sono immaginato una giovane donna che si imbarca su un volo per l’altro capo del mondo, portando con sé solo una valigia e una grande dose di coraggio.

Perché proprio Sydney? Forse conosceva qualcuno lì, o forse aveva scelto quella destinazione per la sua distanza. Quello che è certo è che Clara ha fatto tutto in modo molto preciso. L’acquisto del biglietto aereo, il cambio di identità, la scelta di un nuovo inizio: ogni dettaglio parlava di una pianificazione attenta.

Arrivato davanti alla casa indicata da Smith ho potuto constatare soltanto che non c’era nessuno. Sono quindi andato a cercare un albergo per la notte. Nel frattempo, ho chiesto a Joel se ci fosse una connessione tra lei e il costruttore del robot F. Gagnon.

“La sua famiglia è legata a Gagnon. Clara no.” Mi ha risposto. Questo cambia tutto.

Se non è Clara ad avere un legame con Gagnon, allora devo guardare alla sua famiglia.

Mi sono chiesto se uno dei suoi antenati potesse essere stato un cliente o un collaboratore del famoso costruttore. Forse il robot è stato creato per loro e, in qualche modo, è finito nelle mie mani per svelare questa storia.

Ho passato ore a cercare informazioni sugli antenati di Clara, ma non ho trovato nulla di concreto. L’unico dettaglio rilevante era che la famiglia Rosa possedeva un’antica collezione di automi, molti dei quali provenivano da Parigi.

La sera, ho ripreso in mano il robot (che avevo trovato già nella mia camera di albergo). È così piccolo, così preciso, ma anche così pieno di mistero. L’ho osservato attentamente, cercando di capire cosa lo rendesse così speciale. Girando la manovella, l’ho visto muoversi di nuovo, tracciando lettere invisibili sul foglio.

Mi sono chiesto quante volte Clara o la sua famiglia avessero osservato lo stesso spettacolo, magari senza mai immaginare che, un giorno, avrebbe scritto il suo nome come un enigma da risolvere.

17 maggio 2025

 Caro diario,

La storia di Clara Rosa ha cominciato a prendere forma e il quadro si è fatto più chiaro. Ho iniziato la giornata tornando in biblioteca per approfondire la ricerca su di lei e sul robot che ha scritto il suo nome.

La biblioteca di Avigliana non è enorme, ma conserva un’ampia raccolta di vecchi giornali e riviste. Dopo ore di ricerca, ho trovato un articolo datato 1987 che parlava della scomparsa di Clara Rosa. La descrizione della sua vita prima della scomparsa era piuttosto dettagliata: una donna di trentadue anni, insegnante di musica, con una famiglia benestante e un fidanzamento annunciato con Jacques Lemoine, un uomo d’affari influente.

L’articolo sottolineava che la sua scomparsa era stata inaspettata. Il matrimonio era imminente, ma pochi giorni prima della cerimonia, Clara aveva lasciato Avigliana senza avvisare nessuno. La famiglia aveva denunciato la sua scomparsa, ma senza esiti. Le autorità, non trovando prove di un crimine, avevano concluso che si trattasse di una fuga volontaria.

Dopo aver letto l’articolo, ho deciso di scrivere a Joel per cercare di ottenere più informazioni. Gli ho descritto l’articolo e gli ho chiesto se Clara fosse ancora viva.

La risposta è arrivata rapidamente.

Clara è viva. Continua a cercare.

Non era molto, ma era sufficiente a tenermi motivato. La consapevolezza che Clara fosse ancora viva mi ha spinto a voler scoprire di più.

Nel pomeriggio, ho chiesto a Casale di utilizzare i suoi contatti per indagare ulteriormente. Qualche ora dopo, mi ha richiamato con una scoperta interessante.

“Abbiamo rintracciato una vecchia corrispondenza tra Jacques Lemoine e il padre di Clara,” mi ha detto. “Sembrerebbe che il matrimonio fosse più una questione di affari che di amore.”

“Cosa intende dire?” ho chiesto, già immaginando la risposta.

“L’unione tra Clara e Lemoine avrebbe garantito una fusione tra due importanti società. Era un matrimonio di convenienza, orchestrato per consolidare il potere economico delle famiglie.”

Questo spiega molte cose. Clara probabilmente si era opposta a questa unione forzata e aveva scelto di fuggire per evitare una vita che non voleva.

Con queste informazioni, mi sono chiesto dove potesse essere finita Clara. Una fuga così ben pianificata richiedeva un posto lontano, un luogo dove non sarebbe stata trovata facilmente. Ho scritto di nuovo a Joel per chiedere un indizio.

Clara ha trovato pace in un nuovo mondo.

Ma se Joel sa già tutte le cose… perché non me le dice subito? Mi sono chiesto se intendesse dire che si era trasferita in un altro continente. Ho ipotizzato che potesse essere finita in un luogo lontano, magari in Australia o nelle Americhe. Ho quindi deciso di concentrarmi su queste aree per la mia ricerca.

In serata, Casale mi ha mandato un altro messaggio con un’informazione cruciale.

“Abbiamo trovato un passaporto registrato con il nome di Clara Rosa. È stato usato per acquistare un biglietto aereo per Sydney, in Australia, nel 1987.”

Sydney. Finalmente avevo una pista concreta. Mi sono chiesto cosa avesse trovato Clara in Australia: una nuova vita? Una nuova identità? Ho bisogno di Joel assolutamente. Devo trovare il modo di andare a Sydney… attraverso il diario. Ho scritto di nuovo a Joel e gli ho chiesto se c’era la possibilità che il diario mi portasse in un luogo del presente, dovendo indagare su un evento del passato. La risposta è stata più che precisa.

Non puoi avere un presente all’interno del diario, puoi solo vivere il passato… pertanto… Sydney 16 maggio 2025

Improvvisamente una luce bianca mi ha avvolto e mi sono ritrovato davanti all’Opera di Sydney. L’orologio indicava la data di ieri… quindi sono tornato nel passato, anche se solo di un giorno. Al mio arrivo ho trovato Joel che mi attendeva.

“Clara ha scelto di essere libera. Il suo passato non la definisce più. Ha lasciato tutto per sfuggire a un matrimonio che non voleva, a una vita costruita per soddisfare gli interessi altrui. In Australia, ha trovato la libertà che le era stata negata dalla famiglia.”

La storia di Clara mi ha colpito profondamente. Non tutti avrebbero avuto il coraggio di lasciare tutto per inseguire la libertà. Eppure, lei lo aveva fatto, dimostrando una forza straordinaria.

Domani cercherò di incontrarla e, con una scusa, mi farò raccontare tutta la sua storia.

16 maggio 2025

Caro diario,

Oggi ho ricevuto un pacco inaspettato. L’ho trovato davanti alla porta del mio studio, sigillato con cura, senza alcuna indicazione sul mittente.

La curiosità ha avuto la meglio. Ho preso un coltello e ho aperto il pacco con attenzione. Dentro c’era un piccolo robot meccanico, un modello un poco antiquario ma ben conservato, con dettagli che rivelavano una maestria incredibile. Sembra quel robottino del film “Wall-e”, un piccolo scrivano, con una penna in miniatura nella mano destra e un blocco di carta davanti a sé. Sul fondo, una targhetta di metallo riportava la scritta F. Gagnon, Paris, 1882.

È chiaramente un oggetto di grande valore storico, ma chi me lo ha inviato? E perché?

Ho deciso di esaminarlo meglio. Il robot è costruito con cura artigianale: piccoli ingranaggi si intravedono sotto il pannello trasparente, e la manovella sul lato sembra perfettamente funzionante. Senza pensarci troppo, l’ho girata.

All’inizio, c’è stato solo un suono ritmico, come il ticchettio di un orologio. Poi il robot ha preso vita. La sua mano si è mossa lentamente verso il foglio e ha incominciato a scrivere con la piccola penna. Ha iniziato a tracciare lettere eleganti e precise. Quando si è fermato, mi sono avvicinato per leggere il messaggio.

C’erano solo due parole: Clara Rosa.

Non avevo mai sentito quel nome prima. Forse fa parte della programmazione predefinita del robot, un messaggio lasciato dal costruttore per qualche scopo. Oppure c’era qualcosa di più?

Ho deciso di fare una rapida ricerca. Ho acceso il computer e digitato il nome su Google. Sono apparsi centinaia di risultati, ma nessuno sembrava rilevante. Clara Rosa poteva essere chiunque.

Ho preso il diario e ho scritto a Joel.

Hai idea di chi sia Clara Rosa? Il nome è uscito da un robot meccanico che ho appena ricevuto.

La risposta di Joel è arrivata subito.

Non ignorare il nome. Inizia a cercare.

Era tutto ciò che mi serviva per sapere che c’era qualcosa di importante dietro quel nome. Se Joel ha scritto di non ignorare il nome vuol dire che quel pacco non mi è stato consegnato a caso.

Ho deciso di concentrarmi sul robot. L’ho esaminato con attenzione, cercando eventuali incisioni o meccanismi che potessero spiegare il suo funzionamento. Nulla sembrava fuori posto, ma ho trovato un piccolo compartimento nascosto sotto la base. Dentro c’era un vecchio biglietto scritto a mano.

Il testo era breve, ma sufficiente a suscitare nuove domande: “Trova Clara. La verità è nel suo nome.”

Anche il robot mi chiedeva di cercare questa Clara. Chi era? E quale verità nascondeva il suo nome?

Il resto della giornata l’ho passato a cercare indizi. Mi è venuto in mente che il robot proveniva probabilmente da Parigi, dato il nome del costruttore inciso sulla targhetta. Ho cercato informazioni su F. Gagnon e ho scoperto che era un famoso costruttore di automi attivo nel XIX secolo. Era noto per creare macchine in grado di scrivere messaggi personalizzati, ma nessuno sembrava sapere come funzionassero. Se Clara Rosa fosse in qualche modo legata al costruttore? Ho continuato a cercare, ma non ho trovato nulla di concreto.

Ho scritto di nuovo a Joel.

Come posso trovare Clara? C’è qualche collegamento con Gagnon?

La risposta di Joel è stata breve, ma più chiara di quanto mi aspettassi.

Clara è reale. Trova la sua storia.

Reale. Questa parola cambia tutto. Non si tratta di un messaggio casuale o di una semplice programmazione: Clara Rosa è una persona vera.

Ho deciso allora di contattare il maggiore Casale. Gli ho spiegato il mistero del robot e gli ho chiesto se potesse aiutarmi a cercare informazioni su questa Clara Rosa. Lui, all’inizio, è sembrato scettico, ma poi ha accettato di fare qualche indagine.

Poche ore dopo mi ha richiamato. “Abbiamo trovato qualcosa. Clara Rosa è scomparsa negli anni ’80. Aveva vissuto a Parigi e si era trasferita ad Avigliana, poi è sparita senza lasciare tracce. Il caso è stato archiviato come allontanamento volontario.”

“Allontanamento volontario? Perché?”

“Non ci sono dettagli,” ha risposto Casale. “Ma potrebbe essere stato per motivi personali. Succede spesso che le persone spariscano per sfuggire a situazioni difficili.”

Questa pista, ma non mi basta. Devo scoprire di più.

Tornato a casa ho ripreso ad osservare il robot sulla mia scrivania. Clara Rosa non è solo un nome scritto su un foglio. È una storia, una verità nascosta che devo portare alla luce.

15 maggio 2025

Caro diario,

la scoperta di ieri continua a ronzarmi in testa. William Harper, nascosto per più di dieci anni sotto il pavimento della stanza degli orologi, ha finalmente trovato la luce. Ora dobbiamo capire perché Oslho lo ha ucciso e nascosto.

Mi sono diretto al comando di polizia.

“Devo assolutamente parlare con Oslho.” ho detto al commissario. Lui mi ha dato l’indirizzo esatto e insieme a Joel, ci siamo diretti a casa sua. L’abitazione era una villetta modesta, immersa in un quartiere tranquillo. Quando ci ha aperto la porta, ci siamo trovati di fronte a un uomo con gli occhi che tradivano una certa inquietudine.

“Signor Oslho,” ho iniziato, cercando di mantenere un tono calmo, “siamo qui per parlare di William Harper.”

A quel nome, il viso di Oslho si è irrigidito. Ci ha fatto entrare senza dire una parola e ci ha indicato il soggiorno. Una volta seduti, gli ho spiegato della nostra scoperta sotto il pavimento del museo.

“Harper era un buon uomo,” ha detto Oslho, dopo un lungo silenzio. “Ma aveva il vizio di ficcare il naso dove non doveva.”

“Cosa intende dire?” ho chiesto, fissandolo con attenzione.

Oslho ha sospirato, come se stesse combattendo contro un peso che lo opprimeva da anni.

“William aveva scoperto che alcuni orologi del museo avevano un doppio fondo utilizzato per nascondere cocaina. Quando l’ha scoperto, voleva denunciarmi. Ho cercato di corromperlo, ma non ha voluto ascoltare.”

 “E poi cosa è successo?” gli ho chiesto.

“Gli ho detto di non intromettersi,” ha continuato Oslho. “Ma non ha voluto sentire ragioni. Una sera abbiamo avuto un litigio, proprio nella stanza degli orologi. Lui insisteva, diceva che non poteva far finta di nulla. Non volevo che finisse così...”

“Non voleva che finisse come?” lo incalzai.

Oslho si è coperto il viso con le mani, poi ha sussurrato: “L’ho spinto. È caduto. Non era mia intenzione ucciderlo.”

Le sue parole avevano il sapore amaro della verità. Era chiaro che Oslho non aveva premeditato l’omicidio, ma aveva deciso di coprire il tutto per paura delle conseguenze.

“E gli orologi?” gli chiesi. “Perché li ha fermati?”

“Non li ho fermati io,” rispose. “Sono stati Harper e le sue idee. Pensava che fermare gli orologi a quell’ora fosse un modo per lasciare un segno. Io ho solo lasciato tutto com’era. Non avevo il coraggio di toccare nulla.”

“E ha sbagliato a lasciare tutto com’era… non si è reso conto che tutti gli orologi indicavano il suo nome?”

Il caso è stato finalmente chiuso. Oslho è stato arrestato, e la verità sulla scomparsa di William Harper è venuta alla luce. Gli orologi fermi sulle 07:50 erano la sua ultima testimonianza, un grido silenzioso che ha resistito nel tempo.

14 maggio 2025

Caro diario,

questa mattina mi sono svegliato con la mente ancora intrappolata nella stanza degli orologi. Quei numeri, 07:50, continuano a perseguitarmi, come se stessi cercando di decifrare un enigma che non vuole rivelarsi. Joel, come sempre, non mi ha dato risposte dirette, ma ho imparato che i suoi silenzi spesso nascondono indizi.

Il museo mi aspettava, e con esso quella stanza polverosa che sembra avere tutte le risposte. Entrando, mi sono accorto di un dettaglio che non avevo notato nei giorni precedenti. La luce proveniente dalla finestra colpiva gli orologi in modo diverso, creando un gioco di ombre.

Ho deciso di scattare delle foto, cercando di catturare ogni angolazione possibile. Mi sono seduto ad un tavolo con le immagini davanti a me, cercando di trovare un senso alla cosa. Dopo averle osservate per un po’, ho notato un particolare in un orologio digitale: “07.50” visto in modo rovesciato indicava la parola “OSLO”. Era chiaro che tutti gli orologi indicavano il nome del colpevole “OSLHO”. Osservando meglio le fotografie ho notato un particolare sotto ad una scrivania.

Non poteva essere una coincidenza. Ho chiesto a Joel di aiutarmi e lui, come fa sempre, si è presentato all’improvviso.

“C’è qualcosa lì,” gli ho detto, mostrandogli la foto.

Joel ha annuito, ma, come sempre, ha lasciato che fossi io a guidare le indagini.

Mi sono avvicinato all’angolo indicato nella foto. Era un punto apparentemente anonimo, coperto da una vecchia scrivania polverosa. Ho spostato il mobile e ho notato che il pavimento in quel punto era leggermente diverso dal resto: le assi erano più nuove, come se fossero state sostituite.

“Qui sotto c’è qualcosa,” ho detto a Joel.

Con l’aiuto di un custode del museo, siamo riusciti a sollevare le assi del pavimento. Un piccolo vano nascosto, dentro cui c’era un sacco nero chiuso e sigillato.

Con delicatezza, lo abbiamo aperto. Dentro c’erano alcuni oggetti personali e… un corpo. O meglio, ciò che ne restava. Era uno scheletro, ancora avvolto in ciò che sembrava essere una vecchia uniforme da lavoro. Accanto al corpo c’era un orologio da tasca, anch’esso fermo sulle 07:50.

Era chiaro che avevamo trovato William Harper, il tecnico del museo scomparso nel 1980. Finalmente avevamo trovato il corpo, e l’orologio indicava chiaramente chi lo aveva ucciso.

Dopo aver sigillato la scena e avvisato le autorità, mi sono preso un momento per riflettere. Harper aveva scoperto qualcosa di grosso, qualcosa che lo aveva spinto a rischiare tutto. Ma cosa?

Era giunto il momento di far confessare il vecchio direttore del museo.

“Dobbiamo assolutamente parlare con Oslho,” ho detto a Joel mentre uscivamo dal museo. “E dobbiamo farlo confessare.”

Joel ha annuito, ma non ha detto nulla. Quando si comporta così, vuol dire che sto andando nella direzione giusta.

13 maggio 2025

Caro diario,

Il nome di William Harper continua a risuonarmi nella testa, e l’immagine di quegli orologi fermi sulle 07:50 mi perseguita. C’è qualcosa che non torna, un dettaglio che mi sfugge, ma sento che sto per trovarlo.

Sono tornato al museo di buon mattino. L’edificio, con la sua eleganza senza tempo, sembrava quasi deridermi con la sua aria immobile e solenne. Ho iniziato la giornata parlando con Eleanor, una guida del museo.

“Eleanor,” le ho detto, avvicinandomi a lei mentre sistemava alcuni pannelli informativi, “Ti ricordi di un certo William Harper?”

“Sì, lavorava qui al museo, ma poi è scomparso improvvisamente.”

“Ti ricordi qualcosa di personale, o magari qualche episodio strano accaduto prima della sua scomparsa?”

Lei ci ha pensato per un momento, mordicchiandosi il labbro inferiore.

“Non molto,” ha risposto alla fine. “So che era molto riservato, ma una volta l’ho sentito discutere con il vecchio direttore del museo, Richard Oslho. Stavano parlando di qualcosa che Harper aveva trovato nel magazzino.”

“E cosa aveva trovato?”

“Non lo so,” ha detto con un’alzata di spalle. “Ma sembrava importante. Era visibilmente turbato.”

Oslho era stato il direttore del museo al tempo della scomparsa di Harper, e il suo nome era associato a diverse annotazioni relative al magazzino. Ho deciso di fare una ricerca più approfondita nei vecchi archivi, sperando di trovare un collegamento diretto tra Oslho e Harper.

Ho passato gran parte della mattinata a esaminare polverosi fascicoli e documenti logorati dal tempo. Ho trovato qualcosa di interessante: una serie di lettere interne scritte da Harper e indirizzate proprio a Oslho. In una di esse, Harper parlava di un “oggetto di grande valore” scoperto nel magazzino, qualcosa che, a suo dire, avrebbe potuto cambiare il destino del museo. Ma c’era di più. In un’altra lettera, Harper sembrava preoccupato per la sua sicurezza. Scriveva: “Non posso restare in silenzio su ciò che ho scoperto. Se qualcosa mi dovesse accadere, sappiate che il tempo stesso testimonierà la verità.”

Il tempo stesso? Gli orologi fermi sulle 07:50 erano forse la sua testimonianza?

Nel pomeriggio, ho deciso di tornare al magazzino, alla stanza degli orologi. C’era un dettaglio che avevo trascurato. Ogni orologio sembrava essere stato posizionato con una precisione maniacale, come se Harper avesse voluto lasciare un messaggio attraverso la disposizione degli oggetti.

Dopo ore di osservazione e confronti, ho notato che alcuni orologi formavano un simbolo: una specie di freccia, con la punta rivolta verso un punto preciso della stanza. Mi sono avvicinato a quel punto e ho iniziato a esaminare il pavimento. Sembrava normale, ma, dopo averlo battuto con il manico di una scopa trovata lì vicino, ho sentito un suono sordo. C’era qualcosa sotto. Con l’aiuto di un cacciavite che avevo trovato tra gli attrezzi, sono riuscito a sollevare una delle assi del pavimento. Sotto c’era un piccolo spazio nascosto, e al suo interno ho trovato alcune carte, un orologio da polso e un lingotto d’oro. Le carte erano appunti di Harper. Sembravano essere il suo tentativo di raccontare ciò che aveva scoperto, ma la maggior parte era difficile da leggere.

Tuttavia, una frase era abbastanza chiara: “Oslho non può farla franca. Se leggete queste righe, saprete che non sono fuggito. Sono stato messo a tacere per quello che ho scoperto.”

L’orologio era fermo sulle 07:50. Era la prova che Harper aveva cercato di lasciare dietro di sé. Con la scatola tra le mani, ho scritto a Joel che, improvvisamente è entrato nel magazzino. Gli ho spiegato tutto.

“Oslho è ancora a Londra,” mi ha detto. “Vive in un sobborgo. Credo sia arrivato il momento di fargli una visita.”

Non potevo che essere d’accordo. Oslho era chiaramente coinvolto nella scomparsa di Harper, e forse anche nella creazione di quella stanza degli orologi.

Prima di lasciare il museo, sono tornato a parlare con Eleanor e Thomas, cercando ulteriori dettagli. Thomas, in particolare, sembrava più disponibile ora che gli avevo raccontato di Harper.

“Ho sempre saputo che c’era qualcosa di strano,” ha detto con un tono basso. “Oslho era un uomo ambizioso, ma anche spietato. Se Harper gli avesse intralciato i piani, non si sarebbe fatto scrupoli a eliminarlo.”

Le sue parole mi hanno fatto venire i brividi. Sto per affrontare una persona che, pur di coprire i suoi crimini, è stata capace di nascondere un cadavere per dieci anni.

12 maggio 2025

Caro diario,

oggi la giornata è iniziata come tante altre, ma è bastato uno sguardo al diario per capire che stava per cambiare tutto.

Londra, 1990. Museo degli orologi.

In un attimo mi sono ritrovato in una Londra grigia e piovosa, proprio davanti al maestoso edificio del Museo degli Orologi. La facciata del museo era un capolavoro di architettura, decorata con motivi che richiamavano gli intricati ingranaggi di un orologio.

Ad aspettarmi, immancabile, c’era Joel. Mi ha accolto con il suo solito atteggiamento tranquillo.

“Benvenuto, Giorgio,” ha detto. “Il caso di oggi è… diverso.”

“Diverso in che senso?” ho chiesto, mentre cercavo di scuotermi di dosso il torpore del viaggio. Joel ha indicato l’ingresso del museo.

“Lo capirai presto. Ma ricorda: il tempo è il centro di tutto.”

Entrare nel museo è stato come attraversare un portale verso un altro mondo. Le sale erano piene di orologi di ogni tipo: da enormi pendole intarsiate a delicati orologi da tasca, ognuno raccontava una storia di maestria e precisione. Ma il vero mistero si trovava oltre le aree visitabili, dietro una porta che conduceva al magazzino.

Joel mi ha guidato verso una stanza separata, più polverosa e meno curata rispetto al resto del museo. Era chiaro che lì non arrivavano spesso visitatori. La stanza, però, aveva qualcosa di particolare: decine di orologi erano disposti su scaffali e tavoli, tutti con le lancette ferme. E non erano fermi su orari diversi. No, ogni singolo orologio segnava le 07:50.

“È inquietante,” ho detto, osservando quegli oggetti così precisi e, allo stesso tempo, così enigmatici.

“Lo è,” ha concordato Joel. “Ed è anche il cuore del mistero. 07:50 è l’ora di un omicidio. Un caso mai risolto.”

“Un omicidio? Qui, nel museo?”

Joel ha annuito.

“Un dipendente del museo è scomparso nel 1980, e nessuno ha mai trovato il suo corpo. Ma questi orologi raccontano una storia diversa. Qualcuno ha voluto segnare il momento esatto in cui è accaduto qualcosa di terribile.”

Non c’era traccia di un cadavere o di segni evidenti di un crimine. Solo quegli orologi fermi e la sensazione opprimente che il tempo si fosse cristallizzato in quella stanza.

Ho iniziato a esplorare il locale in cerca di indizi. Ogni orologio sembrava raccontare qualcosa di diverso, ma nessuno aveva segni evidenti che potessero portare a un colpevole. Tuttavia, esaminandoli più attentamente, ho notato un dettaglio intrigante. Alcuni orologi avevano piccole incisioni sul retro, come fossero messaggi cifrati.

Una scritta mi ha colpito più delle altre: “Il tempo non può nascondere la verità.”

Era un messaggio diretto, quasi un invito a continuare la ricerca. Ho controllato altri orologi, ma non c’era altro di rilevante. Mi sono girato verso Joel, che osservava silenziosamente.

“Cosa sai su questo caso?” gli ho chiesto.

“Solo che tutto ruota attorno a quel momento,” ha risposto. “E che sei qui per scoprire cosa è successo.”

Non avendo altri indizi, ho deciso di parlare con il personale del museo. Ho incontrato Thomas, un anziano addetto alla manutenzione, che sembrava conoscere ogni angolo dell’edificio.

“Ah, quella stanza,” ha detto con un tono vagamente inquieto. “Quegli orologi sono lì da anni. Nessuno li tocca. Ogni volta che qualcuno prova a spostarli, succede qualcosa di strano. È come se fossero… maledetti.”

Non credo alle maledizioni, ma le sue parole hanno rafforzato la mia convinzione che ci sia qualcosa di importante dietro quella scena.

“Qualcuno ha mai parlato di un omicidio legato a quella stanza?” gli ho chiesto.

Thomas ha scosso la testa.

“Non direttamente, ma si dice che un tecnico, un certo William Harper, sia scomparso nel 1980. Nessuno ha mai trovato il corpo. Hanno detto che se n’era andato senza avvisare, ma io non ci ho mai creduto. Harper era un tipo strano, sì, ma era affidabile.”

William Harper. Finalmente avevo un nome. Ma cosa gli era successo?

Per il resto della giornata ho continuato a esplorare il magazzino, cercando altri indizi. Ho trovato vecchi registri che parlavano delle attività del museo negli anni ‘80, ma nessuno menzionava la scomparsa di Harper. Sembrava che il caso fosse stato volutamente ignorato o insabbiato.

Quando il sole ha cominciato a calare, mi sono seduto a riflettere su tutto ciò che avevo scoperto. Gli orologi fermi, il nome di Harper, il messaggio inciso su uno degli orologi… Tutto puntava a un segreto nascosto nel cuore del museo.

Eppure, manca ancora qualcosa. Devo scoprire il legame tra Harper e quei maledetti orologi. E so che domani sarà una giornata cruciale per avvicinarmi alla verità.

11 maggio 2025

Caro diario,

Il caso di Jacopo Veronesi mi ha tenuto sveglio per giorni, e il peso della sua morte sembra gravare sulle mie spalle.

Sono arrivato in commissariato presto, e Casale mi ha accolto con la solita tazza di caffè bollente e un aggiornamento.

“Grimaldi continua a negare il coinvolgimento diretto nella morte di Veronesi,” ha detto, sedendosi di fronte a me. “Ma ci sono delle discrepanze nella sua storia. Abbiamo bisogno di un altro approccio.”

Ho annuito, ripensando a tutto ciò che abbiamo scoperto finora. Grimaldi aveva motivi più che sufficienti per spingere Veronesi a completare il dipinto, ma sembrava sincero quando diceva di non averlo ucciso.

La svolta è arrivata poco dopo, quando uno degli agenti ha trovato un nuovo indizio tra i documenti confiscati nel magazzino di Grimaldi. Era una ricevuta per l’acquisto di una sostanza chimica rara, avvenuto pochi giorni prima della morte di Veronesi. La sostanza in questione, una tossina vegetale estratta da una pianta esotica, corrispondeva al veleno trovato nel corpo dell’artista.

“Finalmente abbiamo qualcosa di concreto,” ha detto Casale, sfogliando la ricevuta. “Ma Grimaldi sostiene di non sapere nulla del veleno. Dobbiamo capire chi ha fatto questo acquisto per conto suo.”

La ricevuta riportava un nome: Carla Savini. Questo nome non era comparso prima, ma Casale ha ordinato subito di rintracciarla. Nel frattempo, sono tornato nello studio di Veronesi, sperando di trovare qualche altro dettaglio che potesse aiutarmi.

Mentre esaminavo di nuovo il dipinto incompiuto, ho notato qualcosa che mi era sfuggito. Sul bordo della tela, nascosto tra i tratti di pennello, c’era un dettaglio che sembrava una firma, ma non quella di Veronesi. Era un simbolo stilizzato, simile a una "C" intrecciata con una "S".

Carla Savini.

Era chiaro che questa donna era più coinvolta di quanto pensassimo. Ho chiamato subito Casale per informarlo, e poco dopo è arrivata la notizia che avevano localizzato la Savini. Lavorava come restauratrice freelance e aveva collaborato con Veronesi in passato.

L’interrogatorio con Carla è stato illuminante. All’inizio, era reticente, ma quando le abbiamo mostrato le prove, la ricevuta del veleno e il simbolo sul dipinto, ha ceduto.

“Non volevo farlo,” ha detto, con le lacrime agli occhi. “Ma ero ricattata.”

Secondo la sua confessione, Grimaldi l’aveva costretta a collaborare. Era stata lei a fornire il veleno e a inserirlo di nascosto nello studio di Veronesi, mescolandolo ai suoi materiali artistici. La sostanza era stata scelta proprio per essere difficile da rilevare, e Carla aveva eseguito tutto sotto minaccia.

“Perché Grimaldi voleva uccidere Veronesi?” le ho chiesto. Carla ha scosso la testa.

“Non credo volesse ucciderlo. Lui voleva solo costringerlo a completare i dipinti. Ma qualcosa è andato storto. Veronesi deve aver usato il veleno per errore mentre lavorava.”

La sua spiegazione aveva senso. Il veleno era probabilmente finito nei pennelli o nei pigmenti, e Veronesi, ignaro del pericolo, aveva continuato a dipingere fino a quando non era stato sopraffatto dalla tossina.

Con questa nuova informazione, siamo tornati a interrogare Grimaldi. Quando gli abbiamo presentato la confessione di Carla, ha cercato di negare tutto, ma alla fine è crollato.

“Va bene, sì, l’ho costretta,” ha ammesso. “Ma non volevo che Jacopo morisse! Era un genio, e quei dipinti erano il mio biglietto d’oro. Volevo solo spingerlo a finire il lavoro.”

Grimaldi aveva orchestrato tutto per assicurarsi che Veronesi completasse la serie di dipinti di Giulia Manfredi, che intendeva vendere a collezionisti privati per una somma astronomica. Ma la sua avidità aveva avuto conseguenze fatali.

Con il caso ormai risolto, sono tornato nello studio di Veronesi per un’ultima riflessione. Guardando il dipinto incompiuto, ho sentito un misto di tristezza e ammirazione per l’uomo che lo aveva creato. Veronesi aveva usato la sua arte non solo per esprimere se stesso, ma anche per lasciare una traccia del pericolo che lo circondava.

Mentre me ne andavo, ho pensato a quante storie rimangono sepolte dietro le vite delle persone. Ogni quadro, ogni pennellata di Veronesi era un frammento di verità, e mi sento onorato di aver potuto portare alla luce quella verità, anche se troppo tardi per salvargli la vita.

Non posso fare a meno di riflettere su quanto sia fragile il confine tra ambizione e ossessione, tra arte e pericolo. La morte di Veronesi è un monito per tutti: la bellezza può essere potente, ma anche letale quando finisce nelle mani sbagliate.

10 maggio 2025

Caro diario,

Ho passato gran parte della notte a rileggere i documenti trovati nella cassa. La connessione tra Jacopo Veronesi e Lorenzo Grimaldi è ormai chiara: Grimaldi non era solo un mercante d’arte, ma un uomo disposto a tutto per ottenere ciò che voleva.

Ho iniziato la giornata in commissariato insieme a Casale. Lui era già al telefono, probabilmente per organizzare un’operazione, e quando mi ha visto entrare mi ha fatto cenno di aspettare. Dopo qualche minuto, ha chiuso la chiamata e si è girato verso di me con un’espressione tesa.

“Abbiamo localizzato Grimaldi,” ha detto senza preamboli. “È in un casolare appena fuori città. Ha un piccolo magazzino d’arte lì, ma secondo alcune informazioni potrebbe usarlo anche per affari meno leciti. Potrebbe essere la nostra occasione.”

Ho annuito, prendendo mentalmente nota.

“Quando partiamo?”

“Tra un’ora. Ma prima, Giorgio, devi prepararti. Grimaldi non è uno sprovveduto. Se davvero è coinvolto nella morte di Veronesi, non si farà prendere senza combattere.”

Un’ora dopo, ero davanti al casolare con Casale e alcuni suoi uomini. L’edificio era fatiscente, con le finestre sbarrate e un giardino incolto che sembrava non vedere cura da anni. Il vento portava l’odore umido di legno marcio e terra bagnata.

L’operazione è cominciata senza intoppi. Mentre i poliziotti entravano dalla porta principale, io e Casale ci siamo avvicinati al retro. Abbiamo trovato una porta secondaria, che sembrava usata di recente. Una volta dentro, siamo stati accolti da una scena quasi surreale: scaffali pieni di quadri accatastati senza criterio, scatole di documenti e materiali artistici sparsi ovunque.

“Giorgio, guarda qui,” ha detto Casale, indicando un tavolo. Sopra c’era una lettera scritta a mano. L’ho letta rapidamente, era indirizzata a Veronesi, e il tono era esplicitamente minaccioso:

“Se non consegni il dipinto, le conseguenze saranno gravi. Non pensare di poter giocare con me. Sai bene cosa sono capace di fare.”

Era firmata con una semplice iniziale: L.

“È la prova che ci serviva,” ho detto a Casale, mentre fotografavo il documento per sicurezza.

Mentre continuavamo a perlustrare il magazzino, ho trovato una stanza separata, chiusa con un lucchetto. Uno degli agenti è riuscito a forzarlo, rivelando un piccolo ufficio. Sulle pareti, c’erano appese fotografie di diversi quadri, inclusi alcuni di Veronesi. Ma ciò che mi ha colpito di più è stato un grande quaderno poggiato sulla scrivania.

Il quaderno conteneva un elenco dettagliato di opere d’arte, con annotazioni su prezzi e compratori. Accanto al nome di Jacopo Veronesi, c’era una scritta:

“La serie dei dipinti di Giulia Manfredi – tutti gli episodi devono essere completati entro il mese.”

“La serie?” ho mormorato. “Quanti dipinti aveva in programma di fare Veronesi?”

“Secondo le nostre ricerche, due sono stati completati e venduti,” ha detto Casale. “Il terzo, quello incompiuto trovato nel suo studio, sarebbe stato l’ultimo della serie. Ma sembra che Grimaldi volesse qualcosa di più.”

Proprio mentre stavamo cercando ulteriori indizi, è arrivata la notizia che Grimaldi era stato arrestato. Lo avevano trovato nel magazzino, nascosto tra alcune casse. Era un uomo robusto, con un viso segnato dall’arroganza e dallo sdegno. Quando Casale lo ha interrogato sul posto, ha mantenuto un atteggiamento di sfida.

“Non avete niente contro di me,” ha detto con un sorriso beffardo. “Io compro e vendo arte. È tutto qui.”

“E Veronesi?” gli ho chiesto, guardandolo dritto negli occhi.

Grimaldi ha sollevato le spalle.

“Era un grande artista. Un peccato che sia morto.”

Ma la sua facciata di calma ha cominciato a crollare quando abbiamo mostrato la lettera trovata nel suo ufficio. Ha provato a negare, ma alla fine, messo sotto pressione, ha confessato.

“Sì, l’ho minacciato,” ha ammesso. “Ma non l’ho ucciso. Gli ho solo chiesto di completare il suo lavoro. Quei dipinti erano fondamentali per un’asta che stavo organizzando. Non potevo permettere che si rifiutasse.”

“E il veleno?” gli ho chiesto. Grimaldi ha scosso la testa.

“Non so nulla del veleno. Io volevo il dipinto, non la sua morte. Qualcun altro deve averlo fatto.”

Nonostante le sue dichiarazioni, Grimaldi è stato portato via per ulteriori interrogatori. Per quanto fosse difficile credergli, c’era qualcosa nella sua versione che aveva senso. Sembrava troppo spaventato per aver orchestrato un omicidio così preciso.

Tornato in ufficio, mi sono seduto alla scrivania per riflettere. Se non era stato Grimaldi, chi aveva avvelenato Veronesi? E perché?

Joel è apparso nel mio studio, come sempre silenzioso e discreto. Mi ha osservato in silenzio per un momento, poi ha detto: “Stai facendo progressi, Giorgio. Ma non lasciare che le domande ti distraggano. Ogni indizio è una risposta, se sai come guardarlo.”

“Parli facile tu,” ho ribattuto, frustrato. “Tu sai già tutto. Io invece devo navigare a vista.”

Joel ha sorriso con un’espressione enigmatica.

“Il diario ti porterà dove devi andare. Ma ricorda: la verità non è mai un’unica strada. È un intreccio di scelte.”

Le sue parole non mi hanno dato le risposte che cercavo, ma mi hanno ricordato che ogni caso è una sfida che devo affrontare un passo alla volta.

9 maggio 2025

Caro diario,

Il caso di Jacopo Veronesi si sta rivelando un labirinto intricato, dove ogni indizio sembra condurre a nuovi misteri.

Mi sono diretto al comando per discutere i dettagli delle ultime scoperte con Casale.

“Giorgio, ho controllato i registri,” ha detto mentre mi passava una tazza di caffè fumante. “Quella nobildonna ritratta nel dipinto era Giulia Manfredi, vissuta nel XVIII secolo. Era nota per essere una figura controversa: una benefattrice per alcuni, una manipolatrice per altri.”

“E perché Veronesi avrebbe dovuto rappresentarla nel suo dipinto?” ho chiesto.

“Questo è quello che dobbiamo scoprire. Ma secondo le cronache, Giulia era coinvolta in un complotto per avvelenare un uomo influente del tempo. Alla fine, fu processata e condannata, ma il veleno non fu mai trovato.”

Quelle informazioni erano preziose, ma non mi davano ancora un quadro chiaro. Se Veronesi avesse scelto di raffigurare Giulia, avrebbe dovuto esserci un motivo. Non era il tipo da lasciare dettagli al caso.

Nel pomeriggio sono tornato nello studio del pittore. Mentre esaminavo di nuovo il dipinto incompiuto, ho notato una cosa che mi era sfuggita nelle analisi precedenti. L’ombra minacciosa alle sue spalle non era semplicemente una macchia indistinta. Guardando da vicino, ho visto che la sagoma sembrava tenere qualcosa in mano. Era un flacone, dipinto con un tratto quasi invisibile, come se fosse stato aggiunto all’ultimo momento.

Quel dettaglio mi ha fatto pensare al calice raffigurato nel dipinto ritrovato. Il tema del veleno era evidente, ma cosa stava cercando di dirmi Veronesi?

Ho passato la serata a esaminare gli altri oggetti ritrovati. Tra i documenti c’era una lettera incompleta, scritta con una calligrafia nervosa. Le parole erano poche, ma pesanti:

“Ho cercato di resistere, ma non posso più. Sono circondato. Se stai leggendo questo, sappi che il dipinto incompiuto è la chiave. Loro mi hanno costretto, ma io non sono colpevole. Cerca…”

La lettera si interrompeva bruscamente. Era evidente che Veronesi aveva cercato di lasciare un messaggio, ma qualcosa o qualcuno lo aveva fermato prima di poterlo completare.

La vera svolta è arrivata questa sera, quando ho ricevuto una chiamata da Casale. Era riuscito a rintracciare un ex collaboratore di Veronesi, un certo Arturo Callegari, che aveva lavorato con l’artista come assistente per alcuni anni prima di litigare con lui. Arturo aveva accettato di incontrarmi.

La sua casa era modesta, piena di quadri e schizzi che testimoniavano il suo passato da aspirante pittore. Arturo era un uomo sulla cinquantina, con un’aria nervosa e il viso segnato da rughe profonde.

“Jacopo era un genio, ma anche un uomo tormentato,” mi ha detto mentre ci sedevamo nel suo piccolo soggiorno. “Non tutti capivano le sue ossessioni.”

“Di quali ossessioni stiamo parlando?” gli ho chiesto.

Arturo ha preso un lungo respiro.

“Veronesi era ossessionato dal concetto di verità nascosta. Credeva che l’arte potesse rivelare ciò che le parole e i documenti non potevano. Mi parlava spesso di un gruppo di persone che cercavano di controllarlo. Diceva che volevano usare i suoi dipinti per scopi che lui trovava ripugnanti.”

“Cosa intendeva con ‘scopi ripugnanti’?”

Arturo ha esitato, poi ha detto: “Non lo so esattamente. Parlava di segreti, di messaggi nascosti nei suoi quadri. Diceva che era stato costretto a dipingere per loro, ma che stava cercando un modo per ribellarsi. Penso che il dipinto incompiuto sia la sua ultima ribellione.”

Veronesi aveva usato il suo ultimo lavoro per denunciare ciò che gli era stato fatto, ma chi erano queste persone? E come erano coinvolte nella sua morte?

Tornato al comando, ho raccontato tutto a Casale. Lui ha deciso di convocare Arturo per un interrogatorio formale, mentre io mi sono concentrato sul dipinto incompiuto. Studiandolo ancora una volta, ho notato un dettaglio che mi aveva sempre confuso: l’ombra dietro Veronesi sembrava proiettarsi su una parete vuota, ma non c’era alcuna fonte di luce visibile nel quadro.

Mi sono chiesto se quel dettaglio fosse importante. E allora ho avuto un’idea. Ho chiesto a Casale di farmi portare la tela all’Allemandi, il luogo che Veronesi aveva indicato come parte del suo messaggio.

Arrivato, ho posizionato il dipinto in modo che fosse illuminato dalla luce della torcia. E lì ho visto qualcosa di incredibile. Sotto la luce diretta, una serie di simboli è emersa sulla superficie della tela. Erano invisibili a occhio nudo, ma risplendevano quando colpiti da una luce intensa.

Quei simboli formavano una sorta di mappa, che sembrava indicare una zona specifica vicino al fabbricato. Non poteva essere un caso.

Con Joel al mio fianco, ho seguito la mappa fino a un punto preciso del bosco. Lì, nascosta tra la vegetazione, c’era un’altra cassa in metallo. All’interno, ho trovato una serie di documenti che collegavano Veronesi a un mercante d’arte di nome Lorenzo Grimaldi, noto per i suoi traffici poco puliti.

Grimaldi è stato il primo acquirente del dipinto raffigurante Giulia Manfredi. È evidente che sia coinvolto in qualcosa di più grande, ma cosa?

8 maggio 2025

Caro diario,

Le ultime ore trascorse a riflettere sul caso di Jacopo Veronesi non mi hanno dato tregua, e l'indizio lasciato nel dipinto continua a rimbalzarmi nella testa. “Allemandi.” Quella parola sembra la chiave, ma per quale porta?

Mentre sorseggiavo il mio caffè, ho rivisto mentalmente tutti i dettagli del caso. La chiave ritrovata, le minacce nella cassetta di sicurezza, l’autopsia che aveva rivelato la presenza di veleno... era evidente che qualcuno aveva premeditato tutto con precisione. Ma perché? Quale segreto nascondeva Veronesi?

Quando sono arrivato in commissariato, Casale mi ha aggiornato con alcune novità. Aveva inviato un paio di agenti all’ex dinamitificio per un primo sopralluogo, ma non avevano trovato nulla di rilevante.

“Il posto è in rovina, Giorgio,” mi ha detto, con una scrollata di spalle. “Non c’è niente che possa collegare quel luogo a Veronesi, almeno in superficie.”

 

Superficie. Quella parola mi ha colpito.

“E se non fosse in superficie, Casale? E se ci fosse qualcosa di nascosto?” Lui ha sospirato, visibilmente scettico, ma alla fine mi ha lasciato carta bianca.

Mi sono diretto all’Allemandi e ho trovato ad attendermi Joel. Il panorama era desolante. La struttura è uno scheletro del passato, con mura crepate e piante rampicanti che sembrano voler divorare ogni pietra. Il vento soffiava tra le rovine, portando con sé un’aria di mistero e abbandono. Ho iniziato a esplorare, cercando qualsiasi indizio che potesse fare luce sul caso.

Dopo un’ora di ricerche infruttuose, stavo quasi per arrendermi quando ho notato qualcosa di insolito vicino alla base del capannone principale. Un gruppo di pietre sembrava essere stato spostato di recente. Ho chiamato Joel e insieme abbiamo iniziato a rimuoverle, rivelando un’apertura che conduceva sottoterra.

“Dobbiamo scendere.” mi ha detto Joel.

“Non abbiamo scelta,” ho risposto. “Veronesi ha lasciato questo indizio per un motivo. Dobbiamo sapere cosa nascondeva.”

 

La discesa è stata lenta e claustrofobica. Una scala di ferro, scivolosa e malridotta, ci ha condotti in un ambiente che sembrava essere stato sigillato per decenni. La luce della mia torcia ha rivelato un antico bunker, con pareti rivestite di muschio e un pavimento di terra battuta. Al centro della stanza, c’era una cassa di legno, chiusa con un lucchetto arrugginito.

La chiave che avevo trovato nello studio di Veronesi si è rivelata perfetta per aprire il lucchetto. Dentro la cassa c’erano una serie di oggetti avvolti in stoffe logore: alcuni documenti ingialliti, una vecchia pistola e una tela. La tela era arrotolata con cura, e quando l’ho srotolata, mi sono ritrovato davanti a un altro dipinto di Veronesi.

Questa volta, l’opera era ancora più inquietante. Ritraeva una figura femminile che teneva in mano un calice avvelenato, mentre sullo sfondo un gruppo di uomini discuteva animatamente. La donna aveva uno sguardo feroce e determinato, e il calice sembrava essere l’elemento centrale del dipinto.

Mentre studiavo l’opera, Joel ha trovato un documento. Era una lettera firmata da Veronesi. L’artista raccontava di essere stato costretto a creare una serie di dipinti. Quei dipinti contenevano messaggi codificati destinati a persone da spaventare.

Sono tornato in ufficio e ho deciso di consultare un esperto d’arte locale. Dopo un’analisi accurata, mi ha detto che la donna del dipinto somigliava a un’antica nobildonna della regione, nota per essere stata coinvolta in numerosi scandali e intrighi. Era possibile che Veronesi avesse usato il suo volto come simbolo di tradimento o inganno.

Mentre cercavo di collegare tutti i pezzi, Joel ha finalmente rotto il suo silenzio.

“Giorgio, stai avvicinandoti a una verità pericolosa. Devi essere pronto ad affrontarne le conseguenze.”

“E quali sarebbero queste conseguenze?” gli ho chiesto, irritato dalla sua vaghezza.

“Non posso dirtelo. Non ancora.”

Il mistero della morte di Veronesi si è complicato ulteriormente, e il mio istinto mi dice che siamo solo all’inizio. Ma una cosa è certa: c’è qualcuno là fuori che voleva mettere a tacere Veronesi a tutti i costi.

7 maggio 2025

Caro diario,

Non sono riuscito a smettere di pensare alle parole di Joel: una possibilità per riconquistare Lucrezia, ma solo se riesco a portare avanti questa vita che, a volte, sembra non appartenermi. Non è facile convivere con l’idea di un amore che ho dovuto abbandonare per proteggerlo. Eppure, una piccola scintilla di speranza si è accesa dentro di me, anche se so che il prezzo da pagare sarà alto.

Non ho avuto molto tempo per crogiolarmi nei miei pensieri. Il telefono è squillato presto, e dall’altra parte c’era il Maggiore Casale. La sua voce, sempre decisa, mi ha messo immediatamente in allerta. “Giorgio, abbiamo un caso urgente. Ti aspetto al comando tra mezz’ora.”

Quando sono arrivato, Casale mi ha accolto con un fascicolo spesso e un’espressione grave. Un celebre pittore, Jacopo Veronesi, era stato trovato morto nel suo studio. Il suo nome non mi era nuovo: Veronesi era un artista conosciuto, noto per i suoi dipinti spesso provocatori. Si era trasferito ad Avigliana da pochi mesi, attirando curiosità e ammirazione.

“Il corpo è stato trovato due giorni fa da un assistente,” ha spiegato Casale.

“Perché mi hai chiamato solo adesso?” ho chiesto con curiosità.

“Perché solo adesso mi hai risposto. Sono due giorni che cerco di contattarti.” spingendo il fascicolo verso di me. “Tutto fa pensare a un malore improvviso, ma c’è qualcosa che non torna. Il suo ultimo dipinto... sembra contenere indizi su ciò che gli è accaduto. Voglio che tu dia un’occhiata.”

Lo studio di Veronesi era una scena quasi surreale. Le pareti erano ricoperte di tele, schizzi e appunti sparsi ovunque. Il forte odore di trementina e olio per pittura impregnava l’aria, mentre una luce naturale filtrava attraverso una grande finestra. Al centro della stanza, c’era la poltrona imbottita, dove era stato trovato il corpo senza vita del pittore.

E poi c’era il dipinto.

Una grande tela occupava il cavalletto principale. Non era completata, ma già parlava con una potenza inquietante. Jacopo aveva raffigurato se stesso, seduto davanti al cavalletto, intento a dipingere. Dietro di lui, un’ombra scura prendeva forma, indefinita ma minacciosa. L’attenzione ai dettagli era straordinaria: ogni pennellata sembrava studiata per comunicare qualcosa di specifico. Sul bordo della tela, quasi nascosta, c’era una piccola chiave, dipinta con una precisione che contrastava con il resto dell’opera.

Ho passato ore ad analizzare ogni dettaglio. Non era solo un’opera d’arte; era un messaggio. Jacopo sapeva di essere in pericolo, e aveva usato il suo talento per lasciare un’indicazione su ciò che gli era successo.

Mentre continuavo a osservare il dipinto, la mia attenzione è stata catturata da un dettaglio che inizialmente avevo trascurato. Sotto il cavalletto, nascosto tra pennelli e tubetti di colore, c’era un piccolo cassetto. L’ho aperto con cautela e ho trovato una chiave vera, identica a quella raffigurata nel dipinto. Era minuscola, di quelle che si usano per aprire cassette di sicurezza o piccoli scrigni.

Cosa stava cercando di proteggere Veronesi?

Nel frattempo, Casale aveva ricevuto gli esiti dell’autopsia. Jacopo non era morto per cause naturali. Tracce di veleno erano state trovate nei suoi organi, una sostanza rara e difficile da identificare. Questo ha trasformato un caso già strano in un’indagine per omicidio.

Tornato al comando, ho cercato informazioni su possibili nemici o motivi dietro l’omicidio di Veronesi. Era noto per essere una figura controversa: le sue opere non solo sfidavano le convenzioni artistiche, ma spesso toccavano temi sociali e politici delicati. Non era difficile immaginare che qualcuno avesse potuto nutrire rancore nei suoi confronti.

Mi sono preso una pausa e ho scritto a Joel se sapesse qualcosa di più sulla situazione.

Giorgio, sai che le risposte arriveranno a tempo debito. Continua a fare il tuo lavoro.

La sua cripticità è esasperante, ma non posso fare altro che fidarmi.

Ho deciso di approfondire l’enigma della chiave dipinta. Con l’aiuto di Casale, ho scoperto che il pittore aveva una cassetta di sicurezza in una banca locale. Ottenere l’autorizzazione per aprirla non è stato semplice, ma alla fine ci siamo riusciti. All’interno della cassetta, abbiamo trovato una serie di lettere.

Erano minacce.

La calligrafia era anonima, e il contenuto era spaventoso: “So cosa hai fatto. Se non obbedisci, pagherai con la vita.” Non c’era alcun indizio diretto sull’autore delle lettere, ma il tono era inequivocabile. Jacopo Veronesi era stato preso di mira da qualcuno che sapeva un segreto importante. La chiave però che avevo trovato nel cassettino non apriva nulla di quello che era presente nella cassetta di sicurezza.

Tornando allo studio, ho esaminato di nuovo il dipinto. Stavolta ho notato un altro dettaglio nascosto: una scritta appena accennata nella parte inferiore, che sembrava indicare un luogo. Una parola: “Allemandi”.

“Allemandi” è una parte del vecchio dinamitificio situato nei boschi del Monte Cuneo di Avigliana. Se Jacopo ha lasciato quella parola come indizio, significa che c’è qualcosa di cruciale da scoprire in quel luogo.

La giornata ormai è finita e il caso di Jacopo è solo l’ultimo di una lunga serie di misteri che il diario mi ha spinto a risolvere. Eppure, ogni volta che penso di essermi abituato, qualcosa di nuovo mi sorprende.

Lucrezia, Joel, il diario... tutto è intrecciato in un modo che devo saper gestire al meglio. So che non posso fermarmi. Non devo.

6 maggio 2025

Caro diario,

mi tremano ancora le mani mentre scrivo. Oggi ho assistito a un addio che non avrei mai voluto vivere.

Viola… è scomparsa. E questa volta per sempre.

La giornata è iniziata nel silenzio più assoluto. Io e Joel siamo rimasti nello studio per ore, senza quasi parlare. Lui continuava a stringersi la ferita al braccio, ancora fasciata alla meglio. Gli avevo proposto di andare in ospedale, ma lui aveva scosso la testa:

“Non possiamo andare in ospedale. Io non sono reale, Giorgio. Come spiegheresti le mie ferite? Siamo entrati in un gioco pericoloso. E lei non ha finito.”

“Cosa intendi?” ho chiesto.

“Una parte di Viola, quella più corrotta, è ancorata a questo tempo. Finché esisterà la copia del diario usata da lei, esisterà un passaggio, un varco. Lei può sfruttarlo.”

 “Ma come… com’è possibile? Avevi detto che lei lo aveva distrutto.”

Joel si è alzato a fatica.

“Il diario non è solo carta e inchiostro. È una rete che collega coscienze e realtà diverse. Viola, nel corso dei nostri viaggi, ha capito come usarlo. Ha scritto nei margini. Ha lasciato tracce. Ha creato un punto di ancoraggio.”

“E quindi?” avevo chiesto, già sapendo la risposta.

“Con l’inganno le ho fatto credere che, una volta bruciato lei avrebbe avuto più possibilità di scelta. Ma il diario non può bruciare se non per mezzo delle mie mani. L’ho portato via e l’ho tenuto nascosto. Ma ora devo distruggere quella copia,” ha detto con voce grave. “È l’unico modo.”

Mi sono seduto accanto a lui, incredulo.

“Ma se lo fai… cosa succederà? Tornerai comunque con me nei viaggi?”

Joel ha fatto un piccolo sorriso.

“Sì, perché siamo legati dalla copia che hai in tuo possesso. Eliminando l’altra copia Viola non troverà più un varco. E tu… tu sarai libero di proseguire come hai fatto finora.”

Le sue parole mi hanno rincuorato. Perdere una seconda volta Joel, non penso lo avrei sopportato.

“Sei sicuro di quello che dici?” ho provato a chiedere, ma lui mi ha fermato con uno sguardo.

“Giorgio, abbiamo visto cose che nessuno crederebbe. Abbiamo camminato tra secoli, tra le ombre e i ricordi degli uomini. Ma ci sono leggi più grandi di noi. Io ho creato il diario e io so come distruggerlo.”

Siamo rimasti così, in silenzio, finché il tramonto non ha cominciato a colorare di rosso le pareti dello studio. Poi Joel si è alzato con determinazione. Ha aperto la borsa che portava sempre con sé e ne ha tirato fuori un diario. Era identico al mio, tranne per una piccola incisione sulla copertina: una “V” appena visibile.

“L’ha lasciata lei,” mi ha detto. “Una notte, nel 1941. Era la sua firma.”

Con un gesto deciso, ha posato il diario sul tavolo. Poi ha preso un accendino dalla tasca del cappotto. Lo ha acceso, tenendolo sospeso sopra le pagine.

“Joel… sei sicuro?”

“Non c’è altra strada.”

Ha lasciato cadere la fiamma.

All’inizio non è successo nulla. Poi le fiamme hanno cominciato a salire, lente, come se avessero bisogno di tempo per prendere possesso di quel corpo fatto di carta e segreti. Un odore acre ha riempito lo studio, misto a quello dolciastro dell’inchiostro che bruciava. Ma non era solo carta a bruciare. Era qualcosa di più.

Per un attimo, lo giuro, ho sentito un grido.

Un grido lontano, straziante, che sembrava provenire da molto oltre le mura di questa epoca. E poi… il silenzio. Un silenzio così totale da sembrare irreale. Come se il mondo avesse trattenuto il respiro.

Quando le fiamme si sono spente, sul tavolo era rimasta solo una piccola cenere grigia. Joel l’ha osservata con occhi lucidi.

“È finita, solo io ho il potere di distruggere questi diari.” ha sussurrato.

Sono rimasto senza parole. Mi sembrava di aver perso un’amica e un’ombra allo stesso tempo. Viola, con la sua dolcezza, con i suoi misteri, con il suo dolore… era davvero scomparsa. Non avrei più sentito la sua voce, non l’avrei più vista comparire nei miei viaggi. E, in fondo, neanche Joel sembrava più lo stesso.

“Ti sentirai solo,” ha detto, leggendo i miei pensieri.

“Lo sono già.”

Lui mi ha messo una mano sulla spalla.

“Ma non sei perso. Finché avrai il tuo diario, continuerai a dare un senso a tutto questo. Ogni caso che risolvi salva qualcosa, qualcuno. Viola questo non lo aveva capito.”

“Pensi che rivedrò mai Lucrezia?” ho chiesto, quasi temendo la risposta.

Joel ha sorriso.

“Ho fatto una promessa, ricordi? Ora che Viola non minaccia più l’equilibrio del diario… forse qualcosa potrà cambiare. Ma devi essere pronto a conquistare quel ritorno, Giorgio. Non sarà il diario a dartelo. Sarai tu.”

“Ne varrà la pena?”

“Per chi ama, vale sempre la pena.”

Joel mi ha sorriso ancora una volta, si è girato ed è uscito dal mio studio… svanito nel nulla, come sempre.

Oggi ho visto cosa può accadere quando il potere si trasforma in ossessione. Quando i ricordi diventano trappole. Quando si perde il controllo del proprio destino per inseguire un’ombra.

5 maggio 2025

Caro diario,

Oggi ho avuto la prova che anche chi crediamo di conoscere può nascondere un volto diverso, sconosciuto, terribile. E mai avrei immaginato che quel volto potesse appartenere a Viola.

Mi sentivo inquieto. Non ho chiuso occhio. Continuavo a ripensare a quel vagone, alla figura che sembrava vivere in un limbo tra la vita e la morte, ai documenti che parlavano di esperimenti e trasferimenti segreti. Il nome di Viola inciso nella cartella medica. Avevo bisogno di capire, di sapere perché fosse lì, chi fosse davvero.

Joel ha letto il mio tormento nei silenzi. Siamo andati in una vecchia biblioteca della città.

“Qui,” ha detto, “potremmo trovare risposte.”

Tra gli archivi, nascosti in un faldone etichettato “R.S.V. - Reparti Speciali Volontari”, abbiamo scovato un dossier. Era sigillato con ceralacca, come se volessero impedirne l’apertura. Siamo riusciti a forzarlo. All’interno, lettere tra ufficiali medici austro-ungarici e scienziati civili, documenti top secret, e un nome ricorrente: Progetto Mnéme.

Mnéme, come la musa della memoria. Era un’iniziativa segreta per conservare le menti e i ricordi di pazienti morenti, iniettando nelle loro cellule una sostanza che li avrebbe tenuti in uno stato di coscienza latente. Volevano “salvare le anime” dei soldati e usarle come informatori, come banche viventi di informazioni. Ma qualcosa era andato storto. Molti di loro avevano iniziato a impazzire. A perdere i confini tra presente e passato. A credere di vivere in tempi futuri. Alcuni svilupparono persino... poteri intuitivi inspiegabili.

Tra i nomi dei pazienti sperimentali, Viola Delfaro.

Joel ha letto il documento in silenzio, poi ha chiuso gli occhi e ha sussurrato:

“Sapevo che aveva vissuto qualcosa di traumatico, ma non immaginavo questo.”

Nella notte siamo tornati sul binario, ancora più decisi. Alle 2:43 il treno è ricomparso, puntuale come un orologio del destino. Stavolta abbiamo puntato al penultimo vagone, quello che non avevamo ancora esplorato. Era un vagone dormitorio, con letti a castello militari e una lanterna che oscillava nel vuoto. E lì abbiamo trovato Viola.

Era in piedi, al centro del corridoio. Non sembrava sorpresa di vederci. Indossava ancora quella divisa da infermiera da campo, con il colletto macchiato di sangue secco. I suoi occhi, però, non erano quelli che ricordavo. Erano vitrei, distanti, pieni di una forza oscura. Una forza che non le apparteneva.

“Giorgio,” ha detto con voce profonda, “Finalmente sei salito su questo vagone.”

Ho fatto un passo avanti, incredulo.

“Viola… sei tu?”

Lei ha sorriso, ma era un sorriso tagliente, freddo. “Si sono io. Ma adesso sono molto di più.”

Joel si è messo tra noi, come per proteggermi. “Viola,” ha detto con tono fermo, “Sai cosa vuole il diario. Sei ancora in tempo e tornare con noi.”

La sua risposta è stata un grido. Ha estratto un bisturi, uno di quelli militari da campo, e si è lanciata su di lui. Tutto è accaduto in pochi secondi: il corpo di Joel che cade a terra, il suo braccio che sanguina, e Viola che lo sovrasta, come una bestia ferita ma determinata.

“Tu lo sai che non posso tornare indietro! Io sono più potente del diario che hai creato!” ha urlato.

“Sei stato tu a creare il diario?!?” ho chiesto inebetito e immobile davanti a quello che stava succedendo.

“Viola, fermati! Lo sai che non sono io a decidere le sorti all’interno del diario.” urlava Joel.

Ma lei non ascoltava. Era come se una seconda coscienza avesse preso il controllo. Una Viola più oscura, nata dal dolore e dall’isolamento.

“Il diario,” ha sibilato, “è una nullità. Io sono più forte di lui.”

È stato allora che ho visto gli occhi di Joel aprirsi con fatica. Con la mano tremante, ha toccato il diario che portava con sé. Non era la mia copia… era un’altra, identica alla mia.

“Tu non sei più forte di nessuno,” ha sussurrato. “Non hai voluto lasciare che il diario tracciasse il tuo futuro. Hai giocato con lui per troppe volte.”

“Non è possibile!?!” ha urlato Viola, “Avevo distrutto la mia copia, non puoi averla tu.”

Joel ha aperto il diario e, in un lampo, il treno ha iniziato a dissolversi. Le pareti si sbriciolavano come carta bruciata, le bare svanivano in polvere, e Viola… Viola ha urlato di nuovo. Un urlo che sembrava venire da ogni epoca, da ogni dolore subito.

Poi, il nulla.

Quando ho riaperto gli occhi, eravamo nel mio studio. Joel era steso sul divano, ferito ma vivo. Io tremavo ancora.

“Cos’è successo davvero? Sei tu l’inventore del diario o, meglio, dei diari?” gli ho chiesto.

Joel ha parlato a fatica.

“Viola… ci ha costretti con l’inganno a tornare nel suo passato. Solo uccidendomi avrebbe avuto la scelta finale sul diario. Ma il suo egoismo e la smania di potere le ha fatto perdere la testa. Ho cercato di salvarla… ma qualcosa della sua coscienza è rimasta contaminata. E quella parte… mi odiava.”

“E cosa hai intenzione di fare?” ho chiesto.

Joel ha chiuso gli occhi.

“Dobbiamo tornare nel 1916 e porre fine e questa battaglia. Altrimenti ci perderemo tutti con lei.”

Mi sa che stanotte non dormirò. Viola mi ha salvato la vita, mi ha guidato in indagini impossibili, mi ha fatto sentire meno solo. Ma ora… scopro che il suo scopo era uccidere Joel? È lei il mistero più pericoloso da risolvere.

4 maggio 2025

Caro diario,

non so da dove cominciare. Le parole stasera mi tremano tra le dita, come se volessero rifiutarsi di imprimere sulla carta ciò che ho vissuto. Il 4 maggio 1916 resterà inciso nella mia mente come uno dei giorni più inquietanti e sconvolgenti della mia vita. Nulla, e dico nulla, mi aveva preparato a ciò che avremmo trovato salendo su quel treno.

Tutto è iniziato alle 2:43. Il binario dismesso, immerso nel silenzio irreale della notte di Bratislava, vibrava appena, come se sotto la superficie si agitasse qualcosa di vivo. Un vento improvviso ha sollevato la polvere e le foglie morte, e poi… eccolo. Il fischio. Più cupo, più prolungato del solito. Sembrava un lamento.

Il treno è apparso come un'ombra tagliente tra le tenebre: sei vagoni in legno annerito, vetri rotti, tetti incurvati dal tempo. Il locomotore sembrava provenire da un'epoca ancora più antica, corroso dal tempo ma ancora funzionante con un’inquietante perfezione. Nessun conducente visibile. Nessun suono umano.

Joel ed io ci siamo guardati un attimo, e poi, senza parlare, siamo saltati a bordo del secondo vagone. Appena saliti, una ventata gelida ci ha investiti, come se avessimo varcato una soglia tra due mondi. All’interno del vagone… le solite bare. Non casse da trasporto, non contenitori militari. Proprio bare, allineate lungo le pareti, avvolte da teli di lino e marchiate con numeri romani.

“Non toccare nulla,” mi ha detto Joel a bassa voce. “Qui c’è qualcosa che non obbedisce alle leggi del tempo.”

Abbiamo avanzato tra i corpi. L’aria era densa di odori metallici, formalina e muffa. E poi, qualcosa di ancora più inspiegabile: una parete mobile si è aperta da sola. Abbiamo seguito quel corridoio stretto, fino a raggiungere quello che sembrava un vagone laboratorio. Lì, su un tavolo d’acciaio, c’erano ancora strumenti operatori, una lampada a olio ancora accesa e — incredibilmente — un fonografo che suonava una melodia distorta, come una ninna nanna per anime perdute.

Ma il vero colpo di scena è arrivato pochi minuti dopo. Sul pavimento, tra carte sparse e provette rotte, ho trovato un fascicolo. Lo stesso tipo di cartella medica che avevamo già visto nel laboratorio abbandonato il giorno prima. Ma questo… portava un nome.

Viola Delfaro.

Il mio cuore si è fermato. Non volevo crederci. Non poteva essere lei. Viola era morta nell’esplosione della GrandCamp. Non poteva morire un’altra volta! L’ho aperto con mani tremanti. La calligrafia era la stessa che avevamo visto nei registri: asciutta, precisa, fredda. Parlava di una paziente trasferita da un ospedale da campo nel nord Italia alla “Stazione V.R.S.” per un trattamento sperimentale. Data di arrivo: 17 aprile 1916. Data di decesso: 16 aprile 1916. Coincidenza? Stesso giorno della sua “seconda” morte?

Ho guardato Joel, che nel frattempo aveva scoperto una serie di fotografie ingiallite. Una in particolare mi ha fatto rabbrividire: un gruppo di infermiere di guerra, in posa davanti a un vagone ospedale. Tra loro, c’era lei. Viola.

“Non può essere,” ho sussurrato. “È impossibile.”

Joel ha abbassato lo sguardo. “Giorgio... Esisteva una seconda copia del diario. Viola lo ha trovato ed ha iniziato ad usarlo. Ma come ti ho già raccontato è andata oltre a quello che il diario voleva. Lui ha cercato di fermarla ma lei è riuscita, non si sa come a tornare nel passato. Ha distrutto la sua copia del diario ed è riuscita ad entrare nella tua. Viola è un’anomalia temporale. Ha lasciato tracce in più epoche. Ecco perché è riuscita a manifestarsi anche dopo la sua morte.  Ti ricordi anche il caso di Oslo? È lei che ci ha portato in questo tempo.”

“Vuoi dire che… lei è morta qui? In questo treno?”

“Credo sia legata a questo progetto. Ma neanche io so più realmente quali siano le scelte del diario.”

A quel punto, un rumore ci ha interrotti. Proveniva dal vagone in fondo. Un tonfo sordo. Un colpo… come di qualcosa, o qualcuno, che si muoveva. Joel ha estratto la sua torcia. Io ho afferrato un’asta metallica. Siamo avanzati piano, ogni passo un battito nel petto.

Una bara era aperta. Il telo era stato strappato. E accanto ad essa, accovacciata sul pavimento, una figura umana. Magrissima, vestita di stracci ospedalieri, la pelle pallida come cera. Si è voltata verso di noi… e aveva gli occhi aperti. Ma non sembrava viva. Sembrava… prigioniera di un tempo che non l’aveva mai lasciata andare.

Poi, un boato. Il treno ha rallentato bruscamente. Il mondo intorno a noi ha tremato. E in un attimo, tutto è sparito. Buio. Silenzio. E quando ho riaperto gli occhi… eravamo sul binario, il treno già scomparso nella notte.

Solo Joel e io, e un frammento di una verità che pesa come piombo nel cuore.

Viola era lì. E forse, è ancora parte di questo viaggio.

3 maggio 2025

Caro diario,

Oggi abbiamo fatto un passo avanti, forse il più importante finora, ma non senza sacrifici. Inizio a capire perché questo treno venga definito “fantasma”: non è solo per la sua apparizione fugace, ma per ciò che rappresenta. È un frammento di storia sepolta, volutamente dimenticata. E ogni dettaglio che scopriamo sembra urlare vendetta da un secolo di silenzio.

Stamattina, all’alba, Joel ed io ci siamo recati nel centro della vecchia Bratislava. Abbiamo trovato rifugio in una piccola locanda che pare uscita da un romanzo mitteleuropeo: pareti scrostate, odore di fumo stagnante e un locandiere che ci guardava con occhi sospettosi ogni volta che chiedevamo un’informazione. Ci ha dato una stanza per dormire. Il letto era abbastanza comodo da farci recuperare qualche ora di sonno. Avevamo bisogno di ricaricare le forze prima di tornare all’indagine.

Il nostro primo obiettivo della giornata è stato l’archivio militare sotterraneo della città, un luogo dimenticato quanto il treno stesso. Joel è riuscito a rintracciare un tale di nome Dusan, ex bibliotecario e cospiratore a tempo perso – ci ha dato accesso a una sezione protetta dell’archivio, dietro la promessa che avremmo lasciato tutto esattamente com’era. Inutile dire che la promessa non l’abbiamo rispettata.

Fra scaffali impolverati e faldoni accatastati, abbiamo trovato una mappa ferroviaria del 1910. La linea ferroviaria dismessa, quella su cui il treno fantasma corre tutte le notti, collegava Bratislava a una zona rurale chiamata Devínska Nová Ves. Ma ciò che ha attirato la nostra attenzione è stata una nota a margine, scritta in modo nervoso: “Trasferimento materiali biologici. Codice: Progetto V.R.S. – Vietato l’accesso anche al personale sanitario.”

Abbiamo chiesto a Dusan se sapesse qualcosa del “Progetto V.R.S.”. Lui è impallidito. Ci ha detto che, si vociferava di esperimenti su prigionieri malati di tifo e peste, condotti su vagoni trasformati in laboratori mobili. “V.R.S.” poteva essere l’acronimo di Výskumný Riešiteľský Subjekt – “Unità di Ricerca Risolutiva”. Ma nulla era mai stato provato. Le testimonianze erano state fatte sparire. Le famiglie dei testimoni, pure.

A quel punto, una sola cosa ci restava da fare: tornare là dove tutto era cominciato. Il binario abbandonato con il suo treno fantasma. Ma stavolta, non volevamo solo salire a bordo. Volevamo trovare il punto esatto da cui partiva e a cui tornava. Doveva esserci un nodo ferroviario, un capolinea nascosto.

Ci siamo mossi lungo la vecchia linea per ore, seguendo le traversine arrugginite, il sibilo del vento tra le frasche e le tracce quasi invisibili delle ruote in ferro del treno. Dopo diversi chilometri, immersi in un’area che sembrava abbandonata da decenni, abbiamo trovato una biforcazione nascosta dalla vegetazione. Un binario secondario che si diramava e sprofondava in una sorta di tunnel naturale, scavato nella roccia. All’interno, oscurità totale e una sensazione di gelo che non aveva nulla a che fare con la temperatura.

Ci siamo inoltrati nel tunnel. Dopo una cinquantina di metri, abbiamo trovato un vecchio cancello arrugginito; dietro, un piazzale ferroviario abbandonato. Vagoni semidistrutti, lamiere accartocciate e, in fondo, una piccola struttura in mattoni neri. Era chiusa, ma Joel ha trovato una finestra sfondata.

All’interno, una sala operatoria improvvisata, letti d’ospedale, strumenti chirurgici arrugginiti. Ma soprattutto: registri. Rapporti scritti a mano. Uno di essi portava la data del 30 aprile 1916. Quindi qualcuno era stato in questo posto qualche giorno prima di noi. Il rapporto diceva:

“Il soggetto 32 ha mostrato resistenza straordinaria all’agente patogeno. Tuttavia, la fase terminale ha condotto a emorragie interne incontrollate. Deceduto alle ore 22.15. Corpo consegnato al Treno di Transito.”

Il “Treno di Transito”. Non un semplice mezzo di trasporto. Un sistema. Un rituale. Un modo per far sparire l’evidenza. Per spostare cadaveri infetti senza lasciare tracce. Mi sono sentito mancare.

Poi abbiamo sentito il fischio. Lontano, ma inconfondibile.

Erano le 23:58. Ci restava poco tempo per tornare al punto di osservazione. Mentre correvamo tra la boscaglia, Joel si è fermato.

“Non possiamo solo osservare,” ha detto. “Stavolta, dobbiamo scoprire dove va.”

“E come?” ho chiesto, ansimando.

“Non scendendo. Restando a bordo fino alla fine.”

Purtroppo, non siamo riusciti a salire, ma domani tenteremo di nuovo e cercheremo di scoprire quale sia la sua destinazione finale. Un treno non può sparire nel nulla… Sarà un treno fantasma, ma io so che questo è reale.

 

Caro diario,

Oggi abbiamo fatto un passo avanti, forse il più importante finora, ma non senza sacrifici. Inizio a capire perché questo treno venga definito “fantasma”: non è solo per la sua apparizione fugace, ma per ciò che rappresenta. È un frammento di storia sepolta, volutamente dimenticata. E ogni dettaglio che scopriamo sembra urlare vendetta da un secolo di silenzio.

Stamattina, all’alba, Joel ed io ci siamo recati nel centro della vecchia Bratislava. Abbiamo trovato rifugio in una piccola locanda che pare uscita da un romanzo mitteleuropeo: pareti scrostate, odore di fumo stagnante e un locandiere che ci guardava con occhi sospettosi ogni volta che chiedevamo un’informazione. Ci ha dato una stanza per dormire. Il letto era abbastanza comodo da farci recuperare qualche ora di sonno. Avevamo bisogno di ricaricare le forze prima di tornare all’indagine.

Il nostro primo obiettivo della giornata è stato l’archivio militare sotterraneo della città, un luogo dimenticato quanto il treno stesso. Joel è riuscito a rintracciare un tale di nome Dusan, ex bibliotecario e cospiratore a tempo perso – ci ha dato accesso a una sezione protetta dell’archivio, dietro la promessa che avremmo lasciato tutto esattamente com’era. Inutile dire che la promessa non l’abbiamo rispettata.

Fra scaffali impolverati e faldoni accatastati, abbiamo trovato una mappa ferroviaria del 1910. La linea ferroviaria dismessa, quella su cui il treno fantasma corre tutte le notti, collegava Bratislava a una zona rurale chiamata Devínska Nová Ves. Ma ciò che ha attirato la nostra attenzione è stata una nota a margine, scritta in modo nervoso: “Trasferimento materiali biologici. Codice: Progetto V.R.S. – Vietato l’accesso anche al personale sanitario.”

Abbiamo chiesto a Dusan se sapesse qualcosa del “Progetto V.R.S.”. Lui è impallidito. Ci ha detto che, si vociferava di esperimenti su prigionieri malati di tifo e peste, condotti su vagoni trasformati in laboratori mobili. “V.R.S.” poteva essere l’acronimo di Výskumný Riešiteľský Subjekt – “Unità di Ricerca Risolutiva”. Ma nulla era mai stato provato. Le testimonianze erano state fatte sparire. Le famiglie dei testimoni, pure.

A quel punto, una sola cosa ci restava da fare: tornare là dove tutto era cominciato. Il binario abbandonato con il suo treno fantasma. Ma stavolta, non volevamo solo salire a bordo. Volevamo trovare il punto esatto da cui partiva e a cui tornava. Doveva esserci un nodo ferroviario, un capolinea nascosto.

Ci siamo mossi lungo la vecchia linea per ore, seguendo le traversine arrugginite, il sibilo del vento tra le frasche e le tracce quasi invisibili delle ruote in ferro del treno. Dopo diversi chilometri, immersi in un’area che sembrava abbandonata da decenni, abbiamo trovato una biforcazione nascosta dalla vegetazione. Un binario secondario che si diramava e sprofondava in una sorta di tunnel naturale, scavato nella roccia. All’interno, oscurità totale e una sensazione di gelo che non aveva nulla a che fare con la temperatura.

Ci siamo inoltrati nel tunnel. Dopo una cinquantina di metri, abbiamo trovato un vecchio cancello arrugginito; dietro, un piazzale ferroviario abbandonato. Vagoni semidistrutti, lamiere accartocciate e, in fondo, una piccola struttura in mattoni neri. Era chiusa, ma Joel ha trovato una finestra sfondata.

All’interno, una sala operatoria improvvisata, letti d’ospedale, strumenti chirurgici arrugginiti. Ma soprattutto: registri. Rapporti scritti a mano. Uno di essi portava la data del 30 aprile 1916. Quindi qualcuno era stato in questo posto qualche giorno prima di noi. Il rapporto diceva:

“Il soggetto 32 ha mostrato resistenza straordinaria all’agente patogeno. Tuttavia, la fase terminale ha condotto a emorragie interne incontrollate. Deceduto alle ore 22.15. Corpo consegnato al Treno di Transito.”

Il “Treno di Transito”. Non un semplice mezzo di trasporto. Un sistema. Un rituale. Un modo per far sparire l’evidenza. Per spostare cadaveri infetti senza lasciare tracce. Mi sono sentito mancare.

Poi abbiamo sentito il fischio. Lontano, ma inconfondibile.

Erano le 23:58. Ci restava poco tempo per tornare al punto di osservazione. Mentre correvamo tra la boscaglia, Joel si è fermato.

“Non possiamo solo osservare,” ha detto. “Stavolta, dobbiamo scoprire dove va.”

“E come?” ho chiesto, ansimando.

“Non scendendo. Restando a bordo fino alla fine.”

Purtroppo, non siamo riusciti a salire, ma domani tenteremo di nuovo e cercheremo di scoprire quale sia la sua destinazione finale. Un treno non può sparire nel nulla… Sarà un treno fantasma, ma io so che questo è reale.

2 maggio 2025

Caro diario,

Ebbene sì. Lo abbiamo fatto. Salire su quel treno stanotte è stato come entrare in una fossa comune in movimento, dove il tempo si ferma e il senso stesso della realtà viene riscritto.

Joel ed io ci siamo appostati un’ora prima. Lo stesso casotto di ieri, la stessa candela tremolante. Ma questa volta, zaini in spalla, torce cariche, recuperate durante la giornata di attesa. La decisione era stata presa: dovevamo salire sul treno. Non sapevamo cosa avremmo trovato, né se saremmo riusciti a scendere. Ma siamo stati mandati qui e quindi dobbiamo capire il perchè.

Alle 2:43 in punto, eccolo. In silenzio, come ieri. Ma oggi il suo arrivo sembrava più veloce, come se sapesse che lo stavamo aspettando. Quando la prima carrozza ci ha oltrepassati, Joel mi ha afferrato il braccio.

«Ora», ha detto. E ci siamo lanciati.

La salita è stata un balzo istintivo. Le mani sulle lamiere fredde, il cuore in gola. Siamo atterrati malamente nel piccolo pianerottolo tra due carrozze, la porta scorrevole davanti a noi. Per qualche secondo abbiamo solo respirato affannosamente, cercando di realizzare dove fossimo finiti. Poi abbiamo aperto la porta.

Il primo vagone era buio, ma la torcia ha illuminato subito ciò che non avremmo mai voluto vedere. File di casse lignee disposte ordinatamente, come banchi in una chiesa. Alcune erano chiuse. Altre... no. Corpi. Corpi immobili, rigidi, avvolti in teli sporchi. Uomini, donne, perfino bambini. I visi cerei, le mani giunte o abbandonate ai lati. Nessun odore di decomposizione. Come se fossero stati messi lì da poche ore. O tenuti… in un qualche stato di conservazione.

Ci siamo mossi in silenzio, con una lentezza quasi rituale. In fondo al vagone, una griglia metallica separava lo spazio da una piccola stanza. Joel ha forzato il lucchetto con un attrezzo che non voglio sapere dove teneva nascosto. Dentro, scaffali pieni di documenti. Cartelle scritte a mano, alcune in ungherese, altre in tedesco, altre ancora in una lingua che sembrava slava. Ne ho aperta una a caso.

"Tranzit megerősítve. Riga - Bécs. Alanyok: 27. Státusz: azonosítatlan. Halál oka: feltételezett expozíció."

“Transito confermato. Riga - Vienna. Soggetti: 27. Stato: non identificato. Causa decesso: sospetta esposizione.” ha tradotto Joel. L’ho fissato per un momento.

«Cosa significa? Sono deportati?»

Joel ha scosso la testa.

«Non credo. Guarda le date. 1914, 1915, 1916… Ma questi trasporti non risultano da nessuna parte. È come se qualcuno, da anni, stesse raccogliendo corpi per motivi che sfuggono alla logica. O alla storia ufficiale.»

Abbiamo proseguito. Ogni vagone era simile al precedente, ma più andavamo avanti, più l’ambiente si faceva strano. Nel terzo vagone, per esempio, non c’erano casse, ma solo panche imbottite e resti di coperte militari. Qualcuno aveva vissuto lì dentro. O forse viaggiato. Sui sedili, oggetti personali: un diario sbrindellato, una scarpetta da bambina, una medaglietta religiosa spezzata.

E poi, la cosa più agghiacciante: un biglietto scritto a mano, infilato sotto una borraccia:

"Állítsd meg a vonatot. Ez nem a halottak vonata, hanem az elfelejtettek vonata. Ne hagyd, hogy a történelem megszabaduljon tőle."

(Fermate il convoglio. Questo non è il treno dei morti, è il treno dei dimenticati. Non lasciate che la Storia se ne liberi.)

Ho sentito un nodo salirmi in gola. Un presagio. Una verità che ancora mi sfugge.

Nel quarto vagone, le pareti erano annerite, e l’aria più densa, quasi irrespirabile. Abbiamo acceso le torce al massimo. Stavolta, niente corpi. Solo strutture metalliche simili a lettighe, alcune ribaltate. E al centro, un armadio di metallo con sopra inciso uno stemma: un serpente attorcigliato a una spada.

«Lo stemma dell’Ufficio Sanitario Militare Austro-Ungarico. Questi vagoni sono stati convertiti in laboratori. Giorgio… qui facevano esperimenti.»

L’armadio era pieno di fiale, alcune rotte, altre integre. Sostanze sconosciute, etichette sbiadite. Joel ha iniziato a tradurre le diciture “Test 47-B: reazione al compost umano su base batterica”. Un’altra, “Variante peste nera, contaminazione ambientale”.

Poi, d’improvviso, il treno ha cominciato a rallentare. Joel e io ci siamo guardati: il binario dovevamo averlo superato, e se il treno si fermava… non potevamo rischiare che ci trovassero.

Siamo tornati indietro, saltando giù alla cieca, rotolando nel fango. Il treno ha proseguito la sua corsa, scomparendo nella notte, così come era arrivato.

Ora siamo in un magazzino abbandonato vicino alla stazione. Joel cerca di analizzare i documenti recuperati. Io provo a mettere insieme i pensieri.

Siamo dentro qualcosa di molto più grande di noi. Qualcosa che affonda le radici nella guerra, nella scienza, e nella follia umana. Il treno non trasporta solo corpi. Trasporta una storia che qualcuno voleva nascondere.

Primo maggio 2025

Caro diario,

Sono seduto nel mio studio mentre cerco di chiudere gli occhi su ciò che è accaduto nel mese appena trascorso. Le immagini dell’esplosione a Texas City, il volto di Viola che scompare tra le fiamme, la conversazione con Joel e quella ferita ancora aperta chiamata Lucrezia… Tutto mi sembra un peso troppo grande, persino per me, che di pesi me ne sono caricati molti sulle spalle da quando questo diario è entrato nella mia vita. Credevo che almeno per qualche giorno avrei potuto respirare. Illusione. Ho sentito la solita vibrazione sotto la pelle, quella strana sensazione come di parole che mi sfiorano da dentro. Il diario ha cominciato ad animarsi. L’ho aperto meccanicamente, perché so che non ho scelta. Le lettere si sono mosse sul foglio da sole, questa volta con un colore diverso dal solito… un misto di arancione che pareva il colore delle fiamme.

Bratislava, 1916. Il treno della morte passa ogni notte.

E poi, come sempre, una luce bianca immensa mi ha avvolto. Quando ho riaperto gli occhi ero in un luogo che mi sembrava uscito da un dipinto annerito dalla fuliggine. Una stazione ferroviaria, immersa nella nebbia. L’atmosfera era sospesa, gelida, quasi irreale. I binari arrugginiti si estendevano come dita contorte nel buio, e un silenzio innaturale regnava ovunque. Nemmeno un gufo, nemmeno un passo. Solo il vento, e l’odore di carbone vecchio e pioggia.

Joel era lì, con uno sguardo interrogativo. Mi aspettava accanto a un palo della luce che illuminava solo la sua ombra.

«Non so perché siamo stati mandati in questo posto… È la prima volta che vengo inviato senza un’indicazione precisa. L’unica cosa che so è che qui succede qualcosa di molto strano, Giorgio. Ogni notte, alle 2:43, un treno compare su questo binario dismesso. Nessuno sa da dove venga, nessuno sa dove vada. Ma ogni mattina, ci sono segnalazioni strane. Cani che abbaiano. Vetri che si infrangono. E… cadaveri che spariscono.»

«Cadaveri?» ho chiesto, anche se avevo già capito.

Joel ha annuito.

«Morti di guerra, certo. Ma anche civili. E alcuni di quei corpi… non risultano registrati da nessuna parte.»

Abbiamo camminato per ore lungo i binari, cercando tracce. Joel aveva recuperato una mappa antica della rete ferroviaria austro-ungarica: una vera reliquia. Secondo quel documento, il binario da cui appariva il treno era stato dismesso nel 1913 dopo un deragliamento mortale. Da allora, nessun treno lo ha più attraversato. Eppure, le impronte sulle traversine erano fresche. Le rotaie, graffiate di recente.

Abbiamo trovato rifugio in un casotto per ferrovieri, probabilmente abbandonato da anni. All’interno, polvere e ragnatele, ma anche qualche residuo di bottiglie di vodka e vecchi documenti. Abbiamo acceso una candela e ci siamo preparati ad aspettare.

Alle 2:30, il tempo sembrava essersi fermato. Il vento era cessato. Persino il battito del mio cuore mi sembrava troppo forte in quel silenzio. E poi, improvvisamente, una vibrazione. Leggera, quasi impercettibile. Ma sufficiente a far tremare la fiamma della candela.

Alle 2:43 in punto, l’impossibile è accaduto.

Dal nulla, un convoglio ha cominciato a emergere dalla nebbia.

Non l’ho sentito arrivare. Nessun rumore di ruote, nessun fischio. Solo quella leggera vibrazione e la sua massa scura che si delineava tra i vapori del freddo. Era lungo, massiccio, annerito dal tempo. Sembrava più una creatura che un mezzo. Ogni carrozza aveva i vetri coperti, ma alcune finestre rotte lasciavano intravedere l’interno. E dentro… c’erano bare. O casse, almeno. Alcune spalancate. Alcune… con braccia che sporgevano.

Joel ed io siamo rimasti immobili, trattenendo il fiato.

Il treno è passato lento, come se sapesse che lo stavamo osservando. Mi sono sentito nudo davanti a quell’abominio. Non era solo un treno. Era un rituale. Un corteo funebre meccanico, che sfidava il tempo e la logica.

Quando l’ultima carrozza è scomparsa nella nebbia, ci siamo guardati.

Non una parola per diversi minuti.

«Dobbiamo salire.» ho detto a Joel che mi osservava in attesa di una mia decisione.

Lui ha annuito.  

Ho paura. Ma la paura ormai è diventata una compagna. So solo che qualcosa, su quel convoglio, aspetta. Forse una verità che devo assolutamente conoscere. So già che resterò nel passato per qualche giorno... il presente può attendere.