DETECTIVE PER CASO - IL DIARIO DEL 2025

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14 luglio 2025

Caro diario,

Questa mattina ho aperto gli occhi e ho sentito subito il peso di qualcosa che non avevo ancora elaborato. Ho ripensato alla chiave, alla scatola, al fascicolo nascosto dietro quella porta di legno che, per decenni, nessuno ha voluto aprire    . Ho sentito il bisogno di tornare a guardare tutto da un’altra angolazione. E così ho fatto qualcosa che non facevo da tempo: ho riletto i miei stessi appunti, dall’inizio.

Ho passato la mattinata a ricostruire ogni passaggio. Ho aperto questo diario, non per scrivere ma per seguire le tracce che ho segnato giorno dopo giorno. Ogni indizio, ogni osservazione, ogni dettaglio sembrava ora acquisire un tono diverso, come se la luce fosse cambiata. Ho capito che la vicenda di Elena non è mai stata un caso isolato. È stata un grido lanciato nel cuore di una rete antica, troppo radicata per crollare con un solo colpo.

Verso le dieci, ho ricevuto una mail da un indirizzo anonimo. Non conteneva testo, solo un allegato. Un file PDF, intitolato “verità_non_accettata.pdf”. Ho esitato per qualche minuto, poi l’ho aperto. Dentro c’erano estratti contabili, tabelle, una serie di lettere firmate da funzionari della soprintendenza e note interne della fondazione “Custodes Pietatis”. Tutto corrispondeva a quanto Elena aveva scritto nel suo fascicolo. Ma in più, c’era una lettera inedita. Datata marzo 2022. Firmata da Matteo Costa. Diretta a un certo monsignor S.P.

La lettera suggeriva di “limitare la diffusione del materiale” raccolto da una certa “dott.ssa R.”, e di “intervenire per tempo con discrezione, per evitare che la situazione sfuggisse di mano”. Ho letto quella frase più volte. Intervenire per tempo. Con discrezione.

Non ho potuto ignorare il significato.

Ho subito inoltrato il file a Casale, con un messaggio asciutto: “Serve che tu veda questo. Subito.”
Non ha risposto, ma mezz’ora dopo mi ha chiamato. La sua voce era tagliente. Mi ha chiesto dove avessi preso quel documento. Gli ho detto la verità: non lo sapevo. Ho controllato ancora il mittente della mail, ma aveva usato un server protetto. Nessun modo di risalire. Casale ha detto che si sarebbe mosso con cautela, che avrebbe inoltrato il tutto alla procura, e che avremmo dovuto aspettare.

Ho chiesto se pensasse che Costa fosse coinvolto più a fondo di quanto già sospettassimo. Casale ha fatto una pausa lunga, poi ha detto:

“Se sapeva e ha taciuto, è colpevole. Ma se ha ordinato di agire… allora non abbiamo ancora finito.”

Dopo quella telefonata, mi sono sentito svuotato. Ho chiuso il portatile, e sono uscito. Mi sono fermato a pranzo in una trattoria in centro paese. Ho ordinato una pasta con i funghi, ma ho mangiato appena un terzo del piatto. Il resto l’ho lasciato lì, come spesso accade quando la testa è altrove.

Nel primo pomeriggio ho ricevuto un altro messaggio, stavolta da Chiara Rizzi. Mi ha scritto:
“Mentre svuotavo la casa per il trasloco, ho trovato una lettera. Era nascosta dietro un quadro. È per lei. Non so se gliela posso dare. Ma credo che Elena avrebbe voluto così.”

Sono andato a casa sua nel tardo pomeriggio. Abitava in un appartamento piccolo, disordinato ma pieno di libri. Mi ha accolto con una stretta di mano silenziosa. Mi ha consegnato una busta chiusa. Sopra, con la solita calligrafia inclinata, c’era scritto solo il mio nome: “Per Giorgio De Giorgi.”

Come era possibile che ci fosse una lettera con il mio nome se io non avevo conosciuto Elena Ricci prima della sua morte?

Ho aperto la lettera davanti a lei, seduto al tavolo. Non era una lettera di Elena, ma di Joel.
“Il tuo compito Giorgio è sempre quello di difendere il debole. Non hai potuto proteggere Elena prima… ma puoi riscattare la sua battaglia adesso. Tu devi distinguere la verità dalla vendetta. Hai intuito qualcosa. Ma non sai tutto. Non perché ti manchi il coraggio, ma perché hai ancora troppo rispetto per le regole. Elena, invece, ha imparato che le regole non difendono la verità. La ostacolano. Fai in modo che la sua morte non sia per niente.”

Ho ringraziato Chiara, fingendo di aver letto una corrispondenza della zia Elena. Le ho promesso che la verità non si sarebbe persa. Lei ha solo annuito.

Tornato a casa, ho messo la lettera accanto alla scatola.

E’ chiaro che Elena, anche da viva, ha saputo riconoscere ogni debolezza, ogni omissione, ogni cedimento. E ha scelto di continuare lo stesso. Nonostante tutto.

La sera ho ricevuto la visita di Valente. È arrivato con una cartella. Mi ha detto che stava per pubblicare l’articolo definitivo, quello che aarebbe uscito su un mensile di inchiesta. Mi ha chiesto di leggerlo prima. Ho accettato.

L’ho fatto sedere in salotto, ho letto in silenzio, pagina dopo pagina. L’articolo era solido, ben scritto, preciso. Ma a un certo punto ho chiuso il fascicolo e gli ho detto: “Manca lei.”

Lui ha annuito. Poi ha detto che non era capace di raccontarla per come era. Che ogni volta che ci provava, la fa sembrare un simbolo. E lei non era un simbolo. Era una persona.

Allora gli ho proposto di allegare alla fine dell’articolo una pagina del diario di Elena. Una frase. Una fotografia. Un oggetto. Qualcosa che restituisse la sua voce, non solo il suo effetto.
Valente ci avrebbe pensato. Prima di andarsene, ha lasciato sul tavolo una penna stilografica. Mi ha detto che apparteneva a lei. L’aveva trovata nella sua borsa, tra i libri. Me l’ha data come si consegna una prova. O una reliquia.

Ho posato la penna sulla scrivania. Ho scritto queste pagine senza sapere se domani ci sarà ancora qualcosa da raccontare. Ma serve testimonianza. E serve giustizia. Anche se in ritardo. Anche se imperfetta.

13 luglio 2025

Caro diario,

Ho iniziato la giornata senza fretta. Ho fatto colazione con calma, ho sfogliato il giornale online solo per abitudine, senza cercare notizie. Il caso Rizzi non era più in prima pagina. Un trafiletto in basso a sinistra riportava che Francesca Marini aveva chiesto di parlare con uno psichiatra della struttura carceraria. Nient’altro.

Ho guardato fuori dalla finestra. Avigliana mostra sempre il suo volto più onesto: Uno sguardo al Rocciamelone e alla Sacra di San Michele che sanno sempre raccontare il tempo che passa senza far rumore.

A metà mattina, ho ricevuto una telefonata da padre Ottavio. La voce era più stanca del solito. Mi ha chiesto se avessi tempo per tornare a Novalesa. Voleva darmi qualcosa. Non ha specificato cosa. Ho risposto di sì, senza esitare.

Ho guidato in silenzio. La strada verso l’Abbazia mi è sembrata diversa. Forse più stretta. Forse più lunga. O forse sono stato io ad arrivarci con occhi nuovi. Quando sono giunto, ho trovato la porta della foresteria aperta. Padre Ottavio mi ha accolto con un cenno, senza parole inutili. Mi ha condotto nel suo studio e mi ha passato una piccola scatola di legno scuro.

“Apparteneva a Elena,” ha detto. “L’ha lasciata qui un mese prima di morire. Mi ha chiesto di tenerla finché qualcuno non fosse venuto a cercarla. Ma nessuno è venuto.”

L’ho aperta. Dentro c’erano tre oggetti: un anello d’argento con una pietra nera, una chiave molto antica e una fotografia sbiadita. L’anello era chiaramente suo perché all’interno era inciso il nome di Elena. La chiave non l’ho riconosciuta. La foto ritraeva un gruppo di giovani seduti su un prato, con l’abbazia sullo sfondo. Elena era al centro, sorrideva. Matteo Costa era accanto a lei. Ma non guardava l’obiettivo. Guardava lei.

Ho chiuso la scatola con lentezza. Ho ringraziato padre Ottavio. Lui mi ha detto solo:
“Non abbiamo saputo proteggerla. Ma possiamo ricordarla con la verità.”

Sono uscito nel chiostro. Ho camminato tra le colonne come se fosse la prima volta. L’aria era fresca, profumata di pietra e muschio. Ho sentito il suono lontano di un organo. Qualcuno stava provando un brano. Forse per la messa del giorno dopo.

Sono entrato nella cripta. Le luci basse, la solitudine, il silenzio. Mi sono seduto nel solito posto. Ho appoggiato accanto a me la scatola. Ho fissato la foto, cercando di riconoscere i volti. Forse Elena sapeva che tutto sarebbe finito lì. Forse aveva preparato quella scatola per lasciare una traccia più intima, più invisibile. Non per i giudici. Per qualcuno che avesse voluto capire.

Ho trascorso lì quasi un’ora. Poi ho preso la chiave e ho provato a indovinare dove portasse. Mi sono ricordato che all’interno dell’abbazia c’era un piccolo portoncino incassato nel muro, nella navata laterale, chiuso da sempre. I frati lo chiamano “l’armadio delle eredità”. Nessuno lo apre da decenni. Mi ci sono diretto.

La chiave ha girato al primo tentativo.

Dentro c’era solo un fascicolo rilegato a mano. Nessun titolo. L’ho aperto e ho letto la prima pagina. Era una ricerca incompiuta, firmata da Elena, datata gennaio 2022. Oggetto: “Strutture parallele e finanziamenti opachi nelle fondazioni ecclesiastiche del Piemonte alpino.”

L’ho sfogliata con crescente stupore. Nomi, date, cifre. Lettere cifrate, note a margine. Era il nucleo da cui tutto era partito. Il seme del dossier. Ma qui c’era qualcosa di più: Elena aveva individuato non solo Costa, ma almeno cinque altre figure legate a un meccanismo molto più ampio. Un sistema che non serviva solo a coprire errori, ma a riciclare denaro sotto forma di restauri e progetti di valorizzazione.

Alla fine del fascicolo c’era un foglio scritto a mano. Poche righe.

“Se stai leggendo, vuol dire che non ho potuto concludere. Non fidarti di chi ha interesse a chiudere tutto in fretta. La verità è fatta di strati. Come le pareti di questa abbazia. Più si scava, più si trova.”

Mi sono appoggiato al muro e ho respirato a fondo.

Sono tornato da padre Ottavio e gli ho consegnato il fascicolo. Gli ho detto che non potevo tenerlo. Lui ha annuito. Ha promesso che l’avrebbe consegnato a chi di dovere, senza interferenze. Ma ho visto nei suoi occhi il terrore. Come se sapesse che dentro quelle pagine ci fosse anche il suo nome. O quello di qualcuno troppo vicino.

Ho lasciato l’abbazia. Il sole filtrava tra i monti, proiettando ombre sulla strada. Ho guidato senza fretta. Ho fermato l’auto una volta, a metà strada, solo per guardare il cielo che cambiava colore. Mi sono sentito svuotato e pieno, nello stesso momento.

A casa, ho posato la scatola sulla scrivania. Ho scritto solo due parole sotto la data:
“Chiave nascosta.”

Poi ho chiuso tutto. Anche i miei occhi. Ho ascoltato il silenzio.

Elena non ha lasciato un’eredità. Ha lasciato una domanda aperta. E io non so ancora dove porti.
Ma ho promesso che non mi fermerò.

12 luglio 2025

Caro diario,

Ho iniziato la giornata con una sensazione che non ho saputo decifrare subito. Non era ansia, non era stanchezza. Sembrava quasi malinconia. Ma una malinconia lucida, pulita. Come quella che si prova quando si capisce che qualcosa è finito davvero. Mi sono preparato un caffè più forte del solito e sono rimasto a lungo in cucina, seduto al tavolo, ad ascoltare il ticchettio del cucchiaino contro la ceramica. Per la prima volta dopo giorni non ho pensato al caso Rizzi come a un peso. L’ho pensato come a un’assenza.

Nel pomeriggio, Joel mi ha scritto.

Troviamoci al parco Alverare.

Ci siamo seduti su una panchina, lontano dal rumore. Joel ha parlato poco. Mi ha solo detto che la conferma è arrivata: Francesca Marini sarà rinviata a giudizio per omicidio volontario aggravato. La procura ha rifiutato l’ipotesi di preterintenzionalità. Le prove sono troppe. E la lettera che mi ha scritto, pur non ufficialmente depositata, circola già tra i corridoi del tribunale.

Non ho detto nulla. Mi sono limitato a osservare un cane che correva sull’erba con un bastone in bocca. Poi Joel ha cambiato tono. Mi ha detto che la fondazione “Custodes Pietatis”, coinvolta indirettamente nel dossier, ha subito un’ispezione straordinaria. Hanno trovato discrepanze nei bilanci, fatture dubbie, e una serie di progetti fantasma. Alcuni nomi sono emersi di nuovo: Matteo Costa, un paio di funzionari della soprintendenza, e un vescovo in pensione che ha fatto da garante per anni.

Ho chiesto se la morte di Elena avrà un peso in tutto questo. Joel ha risposto che sì, anche se nessuno lo dirà apertamente. “Il sangue crea verità. A volte solo postuma.”

Abbiamo camminato per un po’ lungo Corso Laghi. Il cielo sembrava trattenere il temporale.

Nel tardo pomeriggio, sono tornato alla biblioteca universitaria. Ho lasciato nella casella della segreteria la cartelletta blu con gli articoli di Elena. Sopra ho scritto in stampatello:

“Da non archiviare.”

Mentre me ne stavo andando, ho sentito una voce che mi ha chiamato per nome. Mi sono voltato. Era Chiara Marini. Non ci eravamo mai visti di persona. Mi ha riconosciuto da una foto su un articolo. Ci siamo stretti la mano come due persone che hanno condiviso una memoria, non una conoscenza.

Mi ha detto che aveva deciso di lasciare Torino. Vuole trasferirsi a Bologna, iniziare un dottorato in filologia medievale. Mi ha mostrato una piccola agenda di Elena, ritrovata in fondo a un cassetto. Era piena di citazioni, appunti e frammenti. Mi ha letto una frase:

“Non serve durare, se non si lascia traccia.”

Ci siamo salutati con discrezione. E mentre la guardavo allontanarsi, ho pensato che forse quella era la forma più onesta di sopravvivenza: continuare a vivere per chi non ha potuto farlo. Senza clamore. Senza retorica.

Tornato a casa, ho trovato una cartolina. Proveniva dalla Francia, senza firma. Solo una foto dell’abbazia di Sénanque, in Provenza, con i campi di lavanda in fiore. Sul retro, una scritta a penna:
“Anche i luoghi tacciono, ma custodiscono.”

Ho capito subito che veniva da Moreschi. Ha lasciato il lavoro, ha scelto di partire. Non per fuggire, ma per ritrovare qualcosa. Forse se stesso. Forse il coraggio di parlare, la prossima volta.

Ho riordinato gli appunti, le copie delle e-mail, i referti della scientifica. Ho messo tutto in una scatola e ho scritto sopra: “Caso Rizzi – chiuso.”

Ma poi ho lasciato la scatola aperta.

Perché so che non si chiuderà mai del tutto.

Questa sera ho riletto una frase di Cioran che Elena aveva sottolineato in uno dei suoi appunti:
“Si dovrebbe scrivere solo se ogni parola è un colpo di scure su un lago di ghiaccio.”

Credo che lei lo abbia fatto.

Credo che io ci abbia provato.

E forse, da domani, sarà tempo di tornare a vivere.
Ma con più attenzione. Con più silenzio. E con più memoria.

11 luglio 2025

Caro diario,

Oggi ho ricevuto una lettera. Una vera lettera, su carta ruvida, con una grafia ordinata, inclinata appena verso destra. Il mittente non era indicato. Solo un timbro postale: Torino, quartiere Vallette. All’interno, tre pagine. Nessuna firma. Ma dopo poche righe ho capito che a scriverla è stata lei. Francesca Marini.

Non so come sia riuscita a farmela recapitare. Forse tramite il suo avvocato. Forse qualcuno della procura ha chiuso un occhio. Fatto sta che, in quella lettera, ha detto cose che non avrei mai immaginato.

Ha cominciato descrivendo l’alba del primo luglio. Ha detto di essersi svegliata alle cinque. Di aver fatto il caffè in silenzio. Di aver ripensato agli ultimi tre anni di vita con Matteo, alla distanza che si era creata, alle parole che non si sono più dette. Poi ha scritto: “Non ho deciso quella mattina di uccidere Elena. L’ho deciso molto prima, senza saperlo. L’ho deciso ogni volta che ho finto di non sapere.”

Quelle parole mi hanno colpito più di un’ammissione diretta. Perché raccontano il volto più pericoloso del crimine: quello che cresce piano, dentro i gesti piccoli. Dentro il non fare, il non dire.

Francesca ha proseguito raccontando dell’ingresso in abbazia, del cammino nel chiostro, del rumore dei passi sul pavimento di pietra. Ha detto di aver portato con sé la chiave per il cancello secondario, rubata mesi prima a Matteo, “perché già allora sapevo che sarebbe servita a qualcosa”.

Quando ha visto Elena, non ha avuto dubbi. Ha detto che non ha provato rabbia, né dolore. Solo una forma estrema di lucidità. “Non potevo sopportare che lei fosse ciò che io non ero riuscita ad essere. Integra. Ostinata. Viva.”

Ho riletto quella frase tre volte.

Francesca non ha raccontato il colpo. Non ha descritto il gesto. Ha saltato quel passaggio. Ma ha dedicato un intero paragrafo a ciò che ha fatto dopo. Ha sistemato il corpo come se dormisse, ha raccolto una penna caduta, ha aggiustato l’orlo dell’abito di Elena. Ha detto che non lo ha fatto per pietà, ma per ritardare la scoperta.

“Ho voluto lasciarla ancora un po’ in quel suo silenzio. Come se il mondo potesse non accorgersene.”

Alla fine della lettera, ha scritto una sola riga:
“Non le chiedo perdono. Ma la prego, non dimentichi.”

Sono rimasto seduto per un’ora con quella lettera tra le mani. Non ho saputo dove appoggiarla. Alla fine, l’ho infilata nel mio zaino, in fondo, accanto alla fotografia del capitello.

Nel pomeriggio ho ricevuto un altro messaggio, stavolta da Casale. Ha detto che la procura ha chiesto l’elenco completo delle pubblicazioni di Elena per inserirle in un fascicolo commemorativo. Un gesto tardivo, ma necessario. Ho proposto di occuparmene io. Casale ha accettato senza obiezioni.

Ho trascorso le ore seguenti nella biblioteca universitaria di Torino, tra scaffali alti e luce fredda. Ho consultato i registri, ho chiesto aiuto alla segreteria, ho parlato con una giovane ricercatrice che mi ha indicato un archivio dimenticato. Lì ho trovato i primi articoli firmati da Elena, quando ancora non era professoressa. Scritti asciutti, coraggiosi, provocatori. Parlava di iconoclastia, di verità nascoste nei simboli, di storia come campo di battaglia morale.

Ne ho fotocopiati tredici. Li ho riletti a casa, uno a uno. Ho sottolineato le frasi che suonavano ancora vive, necessarie. In una di queste ha scritto:
“Il compito dello storico non è custodire le versioni accettabili, ma rischiare di dire ciò che gli altri tacciono.”

Quella frase mi ha riportato a tutto ciò che è successo. Alla paura che ha paralizzato chi l’aveva vicina. Al peso delle bugie leggere come polvere.

Ho sentito il bisogno di parlarne con qualcuno. Ho fatto qualcosa che non facevo da tempo: Ho telefonato a Lucrezia e le ho chiesto di vederci per un caffè. Lei ha accettato.

Non mi ha fatto domande. Mi ha ascoltato parlare per un’ora. Poi ha detto solo: “Tu sei sempre stato bravo a portare la verità agli altri. Ma a te stesso?”

Non le ho risposto. Ma la domanda mi è rimasta dentro.

Tornato a casa, ho messo le fotocopie di Elena in ordine cronologico. Le ho raccolte in una cartelletta blu. Sopra ho scritto con una penna nera:
“Rizzi – L’origine.”

Perché lì, in quegli articoli scritti con rabbia e passione, c’era già tutto: il coraggio, l’isolamento, la precisione. Elena non è diventata scomoda all’improvviso. È sempre stata così. Solo che il mondo, per un po’, ha fatto finta di non vederla.

Sono tornato a casa. Mi sono seduto sulla poltrona e ho lasciato che la musica facesse il suo lavoro: riportare tutto al corpo, ai respiri, al battito.

Poi ho sfogliato le pagine che sto scrivendo. Ho trovato una frase che avevo scritto il primo giorno, quando sono arrivato a Novalesa: “Qui tutto tace.” Ma qualcosa, in fondo, ha urlato.

Finalmente, ho saputo ascoltare.

10 luglio 2025

Caro diario,

Oggi ho sentito il bisogno di camminare. Senza meta, senza orologio. Sono uscito di casa con le scarpe più comode che avevo e ho lasciato il telefono e il diario sul comodino. Non succedeva da mesi.

Ho attraversato la città in lungo e in largo, passando per vicoli che non avevo mai guardato con attenzione. Mi sono fermato a osservare una donna che innaffiava dei gerani su un balcone in piazzetta Santa Maria, ho ascoltato due anziani discutere davanti a un bar chiuso e ho comprato una copia del giornale da un edicolante che mi ha riconosciuto. Mi ha detto: “Ha fatto un buon lavoro con quella professoressa.” Non ho risposto. Ho solo accennato un sorriso e ho fatto un cenno con la testa.

Nel giornale c’era un’intervista a Diego Valente. Titolo: “Chi era davvero Elena Rizzi?” Ho letto ogni riga con lentezza. Valente aveva tracciato un ritratto lucido, quasi onesto, ma intriso di rimpianto. Ha ammesso di averla ammirata, temuta, seguita da lontano. E ha chiuso dicendo che “Elena non era morta per ciò che aveva fatto, ma per ciò che non aveva voluto smettere di fare.” Una frase corretta, forse addirittura elegante. Ma troppo pulita. Troppo comoda.

Perché la verità è che Elena è morta perché tutti hanno scelto la propria salvezza, e nessuno la sua. Anche chi l’ha amata, anche chi l’ha temuta. Hanno sperato che smettesse, che rinunciasse, che accettasse un compromesso. Lei non l’ha fatto. E ha pagato.

Quando sono tornato a casa, ho trovato due messaggi. Uno di Casale. L’altro di Chiara Marini, la nipote di Francesca. Casale mi ha detto che la procura ha accettato di tenere una parte del dossier ritrovato all’Abbazia sotto sequestro temporaneo, in attesa di chiarire alcune responsabilità amministrative. Ha aggiunto che, nel frattempo, sono state avviate indagini parallele sulla gestione di altri luoghi storici della zona. A quanto pare, quello che Elena ha scoperto è solo la punta di una rete ben più ampia.

Mi ha chiesto se volessi occuparmene.
Chiara, invece, mi aveva scritto di aver raccolto le lettere della zia e alcuni appunti personali. Aveva però trovato una cartella intitolata “Domande senza risposte”. Dentro, c’erano elenchi, nomi, date, e una pagina intera scritta a mano con una sola frase ripetuta dieci volte: “Chi resta in silenzio è già colpevole.”

Ho letto quella frase come se fosse indirizzata a me. E in parte lo era. Perché anche io, in quei primi giorni, avevo sottovalutato Elena. Ho pensato che si fosse messa in un gioco troppo grande. Che avesse sbagliato i toni. Che avesse sfidato persone più forti. L’ho pensato davvero. E me ne vergogno. Perché è da quei pensieri che nasce l’abbandono. Nessuno la protegge se la prima cosa che pensi è che se l’è cercata.

Nel tardo pomeriggio ho ricevuto una visita inattesa. Matteo Costa. Non mi ha avvisato. Ha suonato il campanello e si è presentato in giacca e cravatta, pallido, con lo sguardo perso. Siamo entrati nel mio studio.

Disperato mi ha riferito di non sapere più chi sia. Che si è accorto di aver vissuto per anni in una versione di sé costruita su reputazione, prestigio, timori e falsità. Che la morte di Elena non è stata solo una tragedia, ma uno specchio. E che ora, in quel riflesso, vede solo un uomo che ha perso tutto senza combattere per nulla.

Gli ho chiesto se avesse mai amato davvero sua moglie. Non ha risposto. Ha guardato in basso. Poi ha detto che, se un giorno scriverò la verità, non ometta questo: “Il peggiore fra tutti noi non è stato quello che ha colpito. Ma quello che ha taciuto.”
E se n’è andato.

L’ho visto allontanarsi per strada, curvo sulle spalle, un uomo che ha finalmente capito quanto rumore può fare il silenzio.

Ho chiuso la porta. Sono salito in casa. Mi sono seduto sul pavimento, schiena contro il muro. Ho lasciato che la sera scendesse senza fare nulla per fermarla. Poi mi sono messo a scrivere su questo diario. Perché devo raccontare nel dettaglio la storia di Elena, come se fosse un messaggio destinato a chi un giorno troverà queste pagine. Non solo i dettagli tecnici ma anche i sussurri, gli sguardi evitati, le bugie eleganti. Scrivo di Francesca, di Costa, di Moreschi. Ma soprattutto Di Elena. Di come ha scelto la scomodità. Di come ha vissuto nella crepa, tra ciò che è facile accettare e ciò che bisogna denunciare. Di come, pur sapendo di essere sola, ha continuato. Stasera non scriverò altro. Lascio queste righe come sono, sporche di verità e di stanchezza. Non voglio pulirle.

Elena non è morta invano. Ma non è nemmeno stata salvata. È rimasta in quell’intercapedine tragica che separa il dovere dalla realtà. E io sono stato lì, a guardare. A imparare. Non si può tornare indietro. Ma si deve sempre andare avanti. E sono pronto per altri nuovi casi.

9 luglio 2025

Caro diario,

Mi sono alzato tardi. Credo che il corpo, a un certo punto, abbia chiesto tregua. Non ho sentito la sveglia, non ho guardato il telefono, non ho fatto nulla per più di un’ora. Ho solo respirato. Poi, lentamente, ho ripreso a muovermi. Ho fatto colazione con un caffè amaro e due biscotti stantii, ho guardato fuori dalla finestra e ho visto Avigliana piegata dal caldo. Una città in attesa di un temporale che non arriva mai.

Pensavo che avrei passato la giornata in silenzio, lasciando che le ultime tracce del caso Rizzi scivolassero via. Ma non è andata così.

Alle undici ho ricevuto una telefonata da un numero che non avevo registrato. Era Gabriele Moreschi. La guida. La voce era bassa, quasi spenta. Mi ha detto che voleva parlarmi. Non in caserma, non all’abbazia. Ha proposto un luogo neutro: il piccolo bar accanto alla stazione di Susa. Ho accettato. Non ho chiesto il motivo.

Ci siamo seduti fuori, all’ombra. Moreschi ha impiegato diversi minuti prima di dire qualcosa. Poi, senza preavviso, ha cominciato.

Mi ha raccontato di quando aveva conosciuto Elena, due anni fa. Ha detto che all’inizio l’ha ammirata come si ammira qualcuno che ha un passo diverso, un’intelligenza che non ti umilia ma ti sprona. Lei non lo ha mai trattato con sufficienza. Al contrario, ha cercato il suo parere. Gli ha chiesto delle pietre, delle iscrizioni, delle leggende locali. E lui si è sentito importante. Finalmente.

Poi mi ha detto che aveva iniziato ad avere paura. Perché Elena non si era fermata dove tutti si sono fermati. Non si è accontentata delle storie ufficiali. Ha continuato a scavare. E ogni volta che scopriva qualcosa di nuovo, si avvicinava a una verità che molti volevano restasse nascosta. Lui ha provato ad avvertirla. Le ha detto che stava dando fastidio. Ma lei ha sorriso, ha detto che era abituata. Che non sapeva fare altrimenti.

Moreschi ha fatto un lungo respiro. Poi ha detto che, la mattina del primo luglio, era nell’archivio. Come ha sempre dichiarato. Aveva visto Francesca Marini entrare da un passaggio secondario. Non ha parlato. Non l’ha fermata. Ha solo osservato. E quando, mezz’ora dopo, ha sentito un tonfo provenire dalla cripta, ha capito. Ma è rimasto lì. Immobile. Paralizzato.

“Non sono stato complice,” mi ha detto. “Ma nemmeno innocente.”

Ha aggiunto che non ha parlato con nessuno perché ha avuto paura. Paura di essere sospettato, paura di perdere il lavoro, paura di dover ammettere che aveva fallito.

Gli ho chiesto perché ora. Perché proprio oggi, a caso chiuso. Mi ha risposto che ha letto un articolo. Un estratto pubblicato online da Diego Valente. Un pezzo che raccontava di Elena come di una donna sola, circondata da uomini che l’hanno lasciata morire. Moreschi ha detto che non ha sopportato quell’immagine. Perché era vera. E perché lui ne faceva parte.

Ha lasciato sul tavolo una busta. Dentro, una lettera. Scritta da Elena. L’aveva ricevuta due giorni prima della sua morte, ma non l’aveva mai consegnata alla polizia. Era una specie di testamento morale. Gli chiedeva di custodire il dossier, nel caso le fosse accaduto qualcosa. Di non lasciar sparire tutto. Di farsi carico della memoria.

Non l’ha fatto. Ha distrutto la lettera originale, ma ne ha tenuta una copia. Mi ha detto che ora, finalmente, riusciva a guardarsi allo specchio.

Quando me ne sono andato, ho sentito un peso diverso sulle spalle. Non più l’ansia dell’indagine, ma il macigno delle omissioni umane. Tutti, attorno a Elena, hanno scelto il silenzio. E lei ha pagato il prezzo di quella solitudine.

Nel pomeriggio, Joel si è presentato nel mio studio. Gli ho raccontato tutto. Ha ascoltato in silenzio, poi ha concluso dicendo che Moreschi aveva confessato la sua vigliaccheria, non un reato. E aveva ragione. Ma io so che certe vigliaccherie lasciano più cicatrici di un colpo d’arma.

Siamo rimasti in silenzio per un po’, poi Joel ha tirato fuori un fascicolo sottile. Me l’ha passato. Dentro c’era un ordine di servizio. Una richiesta ufficiale. La polizia ha chiesto il mio supporto per un caso a Vercelli. Un altro omicidio. Un altro scenario da leggere.

Gli ho chiesto quando. Ha risposto: “Quando vuoi.”
Ho chiuso il fascicolo, ho detto che ci avrei pensato.

Ho ancora in mente Elena.

“Tradita dai vivi. Salvata dai morti.”

Perché è così che l’ho sentita, in questi giorni. Ogni verità che è emersa, ogni dettaglio che ci ha guidato, è stato un frammento lasciato da lei. Non abbiamo scoperto nulla. È stata lei a condurci, passo dopo passo, anche da morta.

La notte è calata su Avigliana. Le luci filtrano dai lampioni come fiammelle pigre. Ho acceso una candela, non per abitudine, ma per Elena.
E l’ho lasciata consumarsi, come si fa con le cose che devono restare nel tempo.

8 luglio 2025

Caro diario,

Ho passato la mattinata cercando di fare cose ordinarie. Ho stirato delle camicie che non metterò, ho sistemato una pila di libri sullo scaffale che avevo già ordinato tre volte, ho cucinato una pasta al pomodoro squisita. Ogni gesto mi conferma che non sono capace di stare fermo.

Proprio mentre gustavo il mio pranzo, ho ricevuto una telefonata da Casale. La voce mi è sembrata più leggera del solito. Mi ha detto che padre Ottavio aveva chiesto di parlarmi. Solo con me. Nessun verbale, nessuna formalità. Mi sono sorpreso. Non mi aspettavo più nulla da lui. Avevamo deciso di lasciarlo fuori dalle indagini, almeno ufficialmente. Ma qualcosa gli aveva fatto cambiare idea. Forse ha sentito che la rete si stava stringendo anche attorno al suo silenzio.

Sono salito subito in macchina. Ho guidato fino a Novalesa in poco più di un’ora, lungo quella strada che ormai conosco a memoria. L’abbazia mi ha accolto come sempre: silenziosa, immobile, in apparenza immune al passaggio del tempo. Padre Ottavio mi ha fatto accomodare nel suo studio, dietro la sacrestia. Ha versato del tè senza chiedere nulla, poi si è seduto, le mani giunte, lo sguardo basso.

Ha iniziato a parlare senza preamboli. Ha detto che aveva letto la mia mail e aveva preferito parlare di persona. Ha aggiunto che non è lì per cambiare la storia, ma solo per raccontarmi la sua parte.

Mi ha raccontato che da anni aveva assistito, in silenzio, allo scivolamento della comunità monastica verso logiche che non aveva mai condiviso. Aveva visto passare fondi mai spiegati, progetti discutibili, nomi di benefattori che nessuno ha mai visto davvero. Aveva capito che dietro i restauri e le attività culturali c’era una rete di interessi, in cui anche lui era stato coinvolto indirettamente. All’inizio aveva fatto finta di non vedere. Poi aveva iniziato a coprire, firmare, approvare. Senza ricevere nulla. Solo per paura. Paura di perdere il poco equilibrio che quella comunità fingeva di avere.

Mi ha detto che Elena Rizzi è stata l’unica che ha avuto il coraggio di chiedere spiegazioni. Era andata più volte da lui, cercando confronto, pretendendo documenti. Lui l’aveva ascoltata, ma non aveva mai risposto davvero. Le aveva chiuso la porta in faccia con il silenzio. Non per cattiveria, ma per viltà.

“Non l’ho uccisa io,” mi ha detto. “Ma l’ho lasciata morire da sola.”

Quelle parole mi hanno colpito più di qualunque confessione. Perché erano vere. E perché sono la sintesi di molte colpe che non finiscono mai davanti a un giudice.

Gli ho chiesto se avesse mai parlato con Francesca Marini. Mi ha detto di no. Ma ha aggiunto che aveva visto Matteo Costa discutere animatamente con lei nei giorni precedenti il delitto. Una lite nel parcheggio, troppo tesa per essere un normale diverbio coniugale. Aveva visto Francesca piangere. E aveva capito in quel momento che qualcosa stava per accadere.

Quando sono uscito dal suo studio, ho sentito che non avevo in mano nulla di penalmente utile. Ma avevo una verità. La più triste. La più umana. Quella fatta di omissioni, di esitazioni, di uomini che scelgono di non agire.

Mi sono diretto verso la cripta. Era aperta. Nessun turista, nessun rumore. Ho rifatto quei gradini con lo stesso peso nel petto del primo giorno. Mi sono seduto sullo stesso banco, quello con l’incisione “1.7.24”. Ho sfiorato i numeri con un dito. Poi ho chiuso gli occhi e ho lasciato che il silenzio mi riempisse.

Sono rimasto lì almeno mezz’ora. Quando mi sono alzato, ho scattato una foto. Non alla pietra. Ma alla luce che entrava da una piccola finestra sul lato destro. Un raggio netto, obliquo, che tagliava lo spazio come una lama. Ho pensato che forse Elena avesse scelto proprio quel punto per morire. O forse l’ha scelto la mano che l’ha colpita. In ogni caso, quello è diventato un punto sacro.

Sulla via del ritorno ho ricevuto un messaggio da Valente. Mi ha scritto poche parole:
“Grazie. Per aver cercato la verità anche quando tutti tacevano.”

Non ho risposto. Non subito. Ho atteso la sera. Poi, seduto alla mia scrivania, ho aperto il computer e ho scritto una breve risposta:

“Non l’ho fatto per voi. L’ho fatto per lei.”

Nel tardo pomeriggio ho ricevuto un’altra chiamata, questa volta da un numero sconosciuto. Una voce femminile, giovane. Si è presentata come Chiara Rizzi, la nipote di Elena. Aveva letto del caso sui giornali e ha voluto contattarmi. Mi ha raccontato di aver vissuto per un periodo proprio con Elena, durante l’università. E di aver capito, in quegli anni, che c’era qualcosa tra lei e Costa e che il rapporto di coppia con la moglie Francesca si era incrinato da tempo.

Ha detto che Elena era stata solo il catalizzatore di una rabbia antica. Che Francesca, pur brillante e colta, aveva vissuto per troppo tempo all’ombra di un uomo che l’ha esclusa da tutto, persino dalla verità. Non ha giustificato il delitto, ma l’ha collocato in un contesto di frustrazione, di ossessioni covate nel silenzio.

7 luglio 2025

Caro diario,

Mi sono svegliato nel mio letto, tra le mie cose, con la città che brontolava oltre le finestre, ma dentro di me c’era ancora l’eco di quei passi nella cripta, il buio di quel mattino in cui ho trovato il corpo di Elena. Ho capito che certe storie non finiscono con una confessione. Proseguono in ciò che lasciano: vuoti, crepe, silenzi pesanti.

Casale mi ha chiamato intorno alle nove. Mi ha detto che era uscito un comunicato della procura. Francesca Marini è stata posta agli arresti domiciliari in attesa del processo. Le hanno contestato omicidio volontario aggravato, occultamento di prove e intralcio alla giustizia. Costa, invece, è stato formalmente indagato per falso ideologico e abuso d’ufficio. Nulla a che vedere con la morte di Elena, ma abbastanza per fargli perdere la cattedra.

Non ho provato soddisfazione. Non c’è gloria quando si arriva tardi. Elena aveva provato a salvare tutto questo: l’integrità della ricerca, la bellezza dell’Abbazia, forse persino il marito della donna che l’ha uccisa. Ma non ci è riuscita. E io non ho fatto in tempo a fermare nessuno.

Nel pomeriggio sono uscito per camminare. Ho percorso le vie del centro storico senza una meta precisa. Ho pensato di passare in biblioteca. Ho cercato qualcosa scritto da Elena, un saggio, un articolo, qualsiasi cosa. Ne ho trovato uno, quasi per caso: “Simbolismo e potere nel chiostro monastico – L’enigma dei capitelli di Novalesa”. Pubblicato cinque anni fa, per una piccola casa editrice universitaria.

L’ho chiesto in prestito. L’ho letto tutto d’un fiato su una panchina in piazza Conte Rosso. Tra quelle pagine ho ritrovato la sua voce. Lucida, tagliente, ma mai arrogante. Descriveva i dettagli dei capitelli come se fossero parole. Aveva tradotto la pietra in pensiero. E a ogni pagina ho capito di più perché la temevano. Perché qualcuno ha voluto farla tacere. Elena non ha minacciato con urla. Lo ha fatto con la precisione. Con la verità. E la verità, quando si fa chiara, spaventa più della violenza.

Ero immerso nella lettura da non notare la presenza di Joel al mio fianco. Mi aveva portato un caffè. Poi mi ha passato una cartella. Dentro c’erano gli appunti finali della scientifica. Il rapporto conclusivo. Tra le righe ho trovato conferma a tutto quello che abbiamo ipotizzato: dinamica dell’aggressione, cronologia dei messaggi, impronte, tracciamenti. Nessuna sorpresa. Solo l’evidenza che ogni cosa è andata come temevamo. Rapida. Silenziosa. Precisa.

Valente è stato scagionato. Ha ricevuto un ammonimento per omessa denuncia e una multa per intralcio. Ma non sarà incriminato. Si è reso disponibile a consegnare tutti i suoi appunti sul caso alla procura. Ha dichiarato che pubblicherà un’inchiesta dettagliata, senza tralasciare nulla.

Ho ripensato a Elena. A quello che ha rischiato lei, senza mai esitare. E ho capito che il suo coraggio è stato troppo raro. In una professione dove tanti proteggono se stessi dietro le parole, lei ha preferito usarle come armi.

Tornato a casa ho deciso di scrivere una mail. L’ho indirizzata all’abate di Novalesa. Lì dentro ho raccontato tutto ciò che ho visto, trovato, dedotto. Non ho fatto nomi, non ho indicato colpevoli. Ho scritto solo ciò che è accaduto, senza interpretazioni. Gli ho chiesto di conservarla. E di farne memoria.

Credo che certi luoghi abbiano bisogno di ricominciare, ma non dimenticando. Serve che qualcuno si ricordi di chi ha provato a difenderli.

La sera ho cenato da solo, in silenzio. Ho preparato un piatto semplice e ho bevuto un bicchiere di vino.

Mi sono seduto alla scrivania e ho sfogliato le ultime foto fatte all’Abbazia. Quelle scattate prima che tutto accadesse. C’era una che non ricordavo: il capitello del chiostro con la figura femminile che indica la luna. L’ho guardata per un tempo lungo. Poi ho capito. Era Elena, in qualche modo. La donna che non ha abbassato lo sguardo, nemmeno davanti al pericolo. Che ha continuato a indicare qualcosa di più in alto, anche se sapeva che nessuno l’avrebbe seguita subito.

Ho salvato la foto con il nome:

Rizzi_capitello.jpg

Una memoria. Un simbolo.

Il diario si è illuminato. L’ho preso in mano e ho letto le parole di Joel.

Ti sei guadagnato un po’ di tregua.

Forse ha ragione, ma so che la “tregua” sarà breve. Perché domani, probabilmente, inizierà qualcosa di nuovo. E io sarò ancora lì, pronto a cercare verità dove tutti vedono solo abitudine.

Questa storia si è chiusa. Ma ciò che ha rivelato resterà in me per molto.

E ogni volta che sentirò odore di pietra umida, ogni volta che rivedrò un chiostro immerso nel silenzio, saprò che Elena è passata da lì. E ha lasciato qualcosa.
Qualcosa che nessuno potrà più cancellare.

6 luglio 2025

Caro diario,

Mi sono svegliato all’alba, come se qualcosa mi avesse richiamato dal sonno. Ho aperto gli occhi e, per qualche secondo, ho creduto di essere ancora all’interno della cripta, tra quelle pareti fredde, col corpo di Elena steso davanti a me. Ho avuto la sensazione di non avere più tempo. Di dover correre. E infatti ho fatto colazione in fretta, ho preso la giacca e sono partito con quasi mezz’ora di anticipo.

Casale mi ha fatto entrare nella sala riunioni riservata. Sulla parete c’era il tabellone aggiornato: foto, nomi, frecce, evidenze. Al centro, il volto di Elena, ancora in bianco e nero. Attorno, tutto quello che siamo riusciti a scoprire in questi giorni. Ma la scena più importante è stata quella che Joel ha mostrato subito dopo: un nuovo fermo immagine della telecamera. Avevano migliorato la risoluzione. Si vedeva chiaramente una figura femminile, capelli raccolti, giacca lunga, scarpe basse. E il dettaglio che ha fatto la differenza: l’orologio al polso destro. Esattamente come quello che, nei vecchi articoli universitari, portava la moglie di Costa. Francesca Marini.

La scientifica ha confermato: l’impronta rilevata sul foglio trovato nella scatola era sua. Un confronto positivo su tre punti. Abbastanza per convocarla. Casale, consigliato da Joel, ha deciso di agire in silenzio. Nessun arresto formale. Solo un invito “per chiarimenti”. L’abbiamo aspettata nella stessa stanza dove, giorni fa, era stato interrogato il marito. È arrivata con passo esitante, ma lo sguardo dritto. Ha capito subito che sapevamo. Non ha finto. Non ha pianto. Si è seduta, ha incrociato le mani.

E ha cominciato.

Aveva scoperto della relazione tra suo marito e Elena quasi un anno fa. Non si trattava di una semplice storia clandestina, ma di qualcosa di più profondo. Matteo si era legato a Elena non solo emotivamente, ma anche professionalmente. Avevano iniziato a collaborare, poi a scontrarsi. E in quell’alternanza, lei aveva capito che stava perdendo tutto: il rispetto, la casa, e forse anche la reputazione. Ma non aveva fatto scenate. Aveva atteso. Aveva osservato. E, soprattutto, Aveva iniziato a leggere le mail di suo marito.

Così ha scoperto il dossier. Le bozze, le prove, i documenti raccolti da Elena. Aveva capito che la storica stava per distruggere non solo la carriera di Matteo, ma anche quella di molti altri colleghi a cui lei stessa era legata. Ha ammesso di aver fatto una copia del dossier, di averla letta, e di aver preso una decisione. Non per odio, ha detto. Per autodifesa. Perché sapeva che, se Elena avesse parlato, sarebbero stati travolti tutti.

La mattina del primo luglio era entrata da sola nell’abbazia, con le chiavi che aveva rubato a suo marito mesi prima. Ha detto che Elena l’aspettava. Aveva creduto fosse Matteo. Quando aveva capito che era lei, aveva cercato di parlare. Di spiegarsi. Ma Francesca ha perso la calma. Non aveva pianificato un omicidio. Ha solo colpito per istinto, con una piccola statuetta che ha trovato lì vicino, sul bordo dell’altare. Un solo colpo. Fatale.

Poi ha sistemato il corpo. Ha cancellato ogni traccia. Ha lasciato l’abbazia passando per il sentiero laterale. È tornata a casa e ha detto al marito che sarebbe partita per qualche giorno. Ha nascosto tutto. Tranne una cosa: una pagina del dossier, che aveva tenuto per sé. Una specie di trofeo. O forse un ricordo. L’unica impronta che ha lasciato. Quella che ci ha condotto fino a lei.

Francesca ha confessato tutto. Ha firmato la deposizione senza neppure leggerla.

Io sono uscito e mi sono seduto in macchina. Per qualche minuto ho solo respirato. Mi sono reso conto che avevamo chiuso il caso. Che avevamo trovato il colpevole. Eppure, non ho provato sollievo. Solo stanchezza. Come se tutta questa verità, alla fine, fosse solo un’altra versione dell’ingiustizia.

Ho ripensato a Elena. A ciò che ha rischiato per dire la verità. Alla sua tenacia, alla sua solitudine. E al fatto che nessuno l’ha protetta quando ha chiesto aiuto. Nemmeno Valente, che pure ha detto di amarla. Nemmeno Murgia, che ha preferito non sapere. O Costa, che ha voltato la testa dall’altra parte. Nessuno.

Nel pomeriggio sono tornato all’abbazia. I sigilli alla cripta erano stati rimossi. Mi sono seduto in fondo, in silenzio. Lì ho aperto il taccuino. Ho riletto le mie note. Le domande, i sospetti, i percorsi. Tutto è tornato indietro, come un film. Ma mancava qualcosa.

Ho richiuso il taccuino e ho alzato lo sguardo. Solo allora ho notato la piccola iscrizione incisa sul legno del banco dove ero seduto. Una data. “1.7.24”. Esattamente un anno prima del delitto. Ho immaginato Elena lì, seduta, sola, che rifletteva sul da farsi. Forse aveva già iniziato a raccogliere prove. Forse lì ha deciso che avrebbe parlato, costi quel che costi.

Mi sono alzato e sono uscito. Ho sentito finalmente qualcosa avvicinarsi a una forma di quiete. Una tregua. Non pace. Quella non arriva mai, davvero.

5 luglio 2025

Caro diario,

Ho dormito vestito, con la giacca appoggiata sulla sedia e il telefono sul petto, come se temessi che qualcuno potesse cancellare il giorno prima. Ma ho capito presto che quello che è successo ieri sera, nella cappella laterale, è stato solo l’inizio. Il dossier trovato dietro la colonna spezzata ha cambiato completamente il quadro dell’indagine. O forse no. Forse ha solo confermato ciò che temevo fin dall’inizio: che questa non era solo una storia di rivalità accademica o invidie personali. Era una questione di soldi. Di potere. E di paura.

Alle sette e mezza ho chiamato Casale. Gli ho detto tutto. Gli ho descritto la scatola, i documenti, il luogo. Ho sentito il silenzio che ha preceduto la sua risposta, quel tempo sospeso in cui uno capisce che l’altro sta facendo dei calcoli. Poi mi ha chiesto dove fossi e ci siamo dati appuntamento all’abbazia. Joel, cosa normalissima, era già li ad attenderci. Abbiamo aperto insieme la scatola, analizzato i fogli uno per uno. C’erano e-mail compromettenti, firme falsificate, ricevute bancarie con causali inventate. E nomi. Nomignoli, più che altro. Ma incrociandoli.

Casale ha chiamato in procura. Ha chiesto una squadra di supporto per analizzare quei materiali e verificare i conti delle fondazioni coinvolte. Intanto, io e Joel ci siamo diretti verso il laboratorio di Danilo Murgia.

L’abbiamo trovato nel cortile, intento a pulire degli strumenti. Quando ci ha visti arrivare, ha abbassato lo sguardo e ha lasciato cadere lo straccio per terra. Ha detto solo: “Lo sapevo che sareste venuti.” Quel tono non era quello di un colpevole. Era il tono di chi si è preparato da tempo. L’abbiamo invitato a seguirci in caserma. Non ha opposto resistenza.

Durante l’interrogatorio, Murgia ha confermato di aver avuto una relazione con Elena Rizzi. Ha detto che è durata poco meno di un anno, che è stata intensa, ma segreta. Nessuno dei due voleva renderla pubblica per non compromettere le rispettive posizioni. Ma ha detto anche un’altra cosa: che Elena non si è mai fidata completamente di lui. Che lo ha tenuto lontano da certe indagini, proprio per proteggerlo. Solo pochi giorni prima della sua morte ha accennato all’esistenza di un dossier. E lo ha fatto con le stesse parole che ha usato nella nota del suo telefono: “Se mi succede qualcosa, sai dove andare.”

Gli abbiamo chiesto se sapesse cosa conteneva quel dossier. Ha risposto di no. Aveva intuito che riguardasse fondi illeciti e personaggi importanti, ma non ha voluto sapere altro. Ha aggiunto che, la sera prima del delitto, Elena gli aveva detto di aver scoperto che qualcuno aveva intercettato le sue e-mail. E che temeva che la sua vita fosse in pericolo.

Gli ho chiesto se sospettasse di qualcuno. Ha esitato, poi ha detto un nome che ci ha lasciati spiazzati: padre Ottavio.

Ha detto che, in più occasioni, aveva sorpreso il monaco mentre si aggirava tra gli uffici amministrativi con le chiavi dell’archivio riservato. Lo aveva visto prendere documenti, fare fotocopie, parlare al telefono con un tono tutt’altro che pacato. E che, soprattutto, aveva notato una strana complicità tra lui e Matteo Costa.

Ci siamo guardati, io e Joel. Era una pista che non avevamo considerato. Padre Ottavio ci era sempre sembrato uno di quei monaci ombrosi, poco inclini alla parola ma devoti. Mai avremmo pensato che potesse avere un ruolo in tutta questa storia.

Siamo andati da lui, nel suo studio. Ci ha accolti con una calma disarmante, ci ha fatto sedere, ha offerto del tè. Ma quando Casale gli ha mostrato una copia dei documenti ritrovati nella scatola, il suo sguardo si è irrigidito.

Ha detto che non ne sapeva nulla. Che non conosceva quei fogli, che non ha mai avuto rapporti con la fondazione citata. Ma ha commesso un errore. Ha nominato la causale di una delle ricevute – una borsa di studio per “progetto Tanaro” – prima che noi gliela leggessimo. Un dettaglio che non avrebbe potuto conoscere, a meno di aver letto quei documenti.

Joel ha sorriso. Abbiamo ringraziato e siamo usciti. Poi, Joel ha ordinato la sorveglianza discreta su padre Ottavio. Volevamo capire se fosse lui il tramite tra Costa e gli altri. E soprattutto se avesse avuto un ruolo diretto nella morte di Elena.

Nel pomeriggio ho ripensato al messaggio trovato nel cellulare della vittima: “Domani mattina alle sette. Sii puntuale. Voglio finirla con questa storia.” Ho riletto quel messaggio più volte, cercando di capire il tono, l’intenzione. Non era minaccia. Elena aveva voluto incontrare qualcuno per affrontarlo. E la cripta era stata scelta da lei, non da lui. Probabilmente per non essere vista. Ma l’altro ha capito che non poteva lasciarla parlare. E ha agito.

Ho rimesso insieme la sequenza. Elena aveva dato appuntamento. Era arrivata per prima. Aveva aspettato. L’altro era arrivato. Avevano parlato. Lei minacciava di rivelare tutto. Lui ha perso il controllo. L’ha colpita. Poi, per inscenare un malore, l’ha sistemata come se dormisse. Ma ha dimenticato un dettaglio: la ferita alla base del cranio.

Ho ripensato anche alla figura ripresa dalla telecamera. Avevamo dato per scontato che fosse un uomo. Se non lo fosse? Se fosse stata una donna?

Ho chiesto a Casale di mostrarmi di nuovo il filmato. L’abbiamo guardato insieme, rallentando i fotogrammi. La figura era bassa, spalle strette, passo incerto. Poi Joel ha detto una cosa che mi ha lasciato pensieroso: “E se fosse la moglie di Costa?”

Era la prima volta che la prendevamo in considerazione. Ma un agente che aveva interrogato Costa in via informale aveva riferito di un furioso litigio con la moglie proprio la sera del 30 giugno. E che da allora lei era sparita per qualche giorno, dicendo di essere andata dalla sorella. Ma la sorella, contattata da Casale, aveva detto di non averla mai vista.

Ho chiesto subito un confronto con la signora Costa. Non si è resa disponibile. Ha detto che non si sentiva bene, che preferiva parlare con un avvocato. Una risposta che, in un altro contesto, sarebbe stata solo prudente. Ma oggi, con quello che sappiamo, suona come un allarme.

A fine giornata Casale ha ricevuto una telefonata della scientifica. Uno dei documenti trovati nella scatola, una ricevuta con firma contraffatta, era stato analizzato per le impronte presenti. Oltre a quelle di Elena, erano presenti altre due: una di Costa. L’altra non era ancora stata identificata. Se dovessero corrispondere a quelle della moglie, non ci sarebbero più dubbi.

Qualcuno ha tradito. Qualcuno ha taciuto. Ma la verità, anche se offuscata da mani esperte, ha lasciato impronte ovunque.

E io sono pronto a seguirle.

4 luglio 2025

Caro diario,

Appena mi sono svegliato ho rivisto il volto di Elena Rizzi, le pieghe del suo abito, quella precisione quasi teatrale con cui il suo corpo era stato disposto. E poi ho ripensato alle parole dell’abate: “A volte sono proprio loro il segreto.”

Alle nove, come previsto, Valente si è presentato in caserma. Casale l’ha fatto accomodare nella sala degli interrogatori. Io ho assistito dietro al vetro, insieme a Joel. Il giornalista ha mostrato un’aria distaccata, quasi infastidita dalla convocazione. Ma l’ho visto toccarsi continuamente il polso destro. Un tic nervoso. Segno che qualcosa, sotto la maschera, lo ha turbato.

Casale ha cominciato chiedendo il motivo della sua presenza a Novalesa la mattina del primo luglio. Valente ha provato a sostenere la versione del viaggio ad Aosta, ma quando gli abbiamo mostrato il tabulato telefonico, ha cambiato espressione. Ha detto che ha avuto un ripensamento all’ultimo momento. Che ha deciso di passare da Novalesa per salutare Elena, per convincerla a desistere da alcune pubblicazioni pericolose. Ha giurato che, quando è arrivato, l’ha trovata già morta.

Ha detto di essersi spaventato. Che ha visto il corpo disteso nella cripta, ha riconosciuto l’abito, ha capito subito chi fosse. Ma invece di chiamare la polizia, è scappato. Ha lasciato l’abbazia dall’ingresso secondario ed è tornato in macchina, diretto verso Aosta come se niente fosse. “Non ho avuto il coraggio”, ha detto. “Sapevo che tutti avrebbero pensato a me.” E forse non ha avuto tutti i torti.

Casale ha insistito: perché non ha detto niente? Perché non ha chiamato neanche in forma anonima? Valente ha stretto le mani a pugno e ha risposto che temeva per la propria carriera. Aveva già subito minacce per colpa di quelle indagini. Non poteva permettersi di finire in mezzo a un’indagine per omicidio.

Quando l’interrogatorio è finito, Casale ha ordinato di trattenerlo per accertamenti. Nessuna accusa, ancora. Ma abbastanza ombre da impedirgli di muoversi. Joel però non era convinto. Neppure io.

Siamo tornati insieme in abbazia, io e lui, senza farci annunciare. Volevo rivedere l’archivio, il chiostro, la cripta. Camminavamo lentamente, guardando i muri, cercando di ascoltare i silenzi.

In uno scaffale dell’archivio abbiamo trovato una cosa interessante. Un fascicolo intestato “Restauri 2020-2024 – Fondazione Pio IX”. Dentro, una serie di documenti amministrativi: ricevute, lettere, approvazioni. In uno di questi c’era un nome che non mi aspettavo: Matteo Costa. Non come referente scientifico, ma come firmatario di una richiesta di fondi. Eppure, lui aveva detto di non essere mai stato coinvolto nei lavori di restauro. Anzi, si era detto critico. Un’altra bugia.

Abbiamo portato i documenti a Casale. Lui li ha consegnati immediatamente a chi di dovere per un controllo incrociato. Nel frattempo, io sono tornato da Moreschi. Stavolta non da solo. Volevo che sentisse il peso della divisa. L’abbiamo trovato intento a sistemare dei dépliant nel suo ufficio presso la biglietteria. Ha capito subito che le cose si stavano complicando.

Gli ho chiesto ancora una volta dove fosse la mattina del primo luglio. Lui ha ripetuto la storia dell’archivio. Ma quando ho parlato del fascicolo trovato, si è irrigidito. Ha detto che quel documento era stato smarrito mesi fa. Che non avrebbe dovuto essere lì. Ma non ha saputo spiegare come ci sia finito. Quando gli ho fatto notare che la sua firma compariva su un modulo allegato, ha fatto una smorfia strana. Poi ha detto solo: “Non è mia quella firma.”

QHo lasciato l’abbazia con l’impressione che ualcuno sta cercando di insabbiare le cose, ne sono sicuro.

Tornato in caserma, ho chiesto a Casale di poter esaminare di nuovo il telefono della vittima. C’era una cartella di note. In una di queste, datata tre giorni prima della morte, ho letto:

“Se mi succede qualcosa, il mio dossier è dove ci siamo baciati la prima volta.”

Ho chiesto a Casale se sapesse di una relazione sentimentale della professoressa. Lui ha alzato le spalle. Abbiamo pensato a Costa, a Valente, persino a un religioso. Ma poi Joel ha suggerito un nome che fino a quel momento avevamo considerato solo marginale: il restauratore.

Si chiama Danilo Murgia. Ha collaborato ai lavori di consolidamento delle absidi. Vive in un piccolo alloggio sopra il laboratorio lapideo. Non è stato ancora interrogato perché risultava fuori città nei giorni dell’omicidio. Ma un vicino ha riferito che lo aveva visto rientrare.

Abbiamo deciso di aspettare l’alba per parlargli. Sono tornato in abbazia, da solo. Sapevo che era una follia, ma volevo cercare quel dossier. Dove ci siamo baciati la prima volta, ha scritto. Se davvero tra lei e Murgia c’è stata una relazione, dove sarebbe potuto avvenire quel bacio?

Mi sono diretto verso l’absidiola laterale, quella chiusa da mesi per lavori, ancora interdetta ai visitatori. Sono entrato scassinando il chiavistello con un coltellino. Ho usato la torcia del telefono. Ho cercato dietro le panche, sotto le lastre staccate. Niente.

Poi ho notato un piccolo vano nel muro, vicino a una colonna spezzata. Era coperto da un telo. L’ho sollevato. Dentro c’era una scatola di legno. L’ho aperta.

C’erano fogli. Decine. Annotazioni, foto, estratti bancari, e-mail stampate. Tutto collegava Costa, Moreschi e perfino il parroco locale a un giro di fondi mai dichiarati, progetti culturali inventati, borse di studio assegnate a nomi fittizi. Un sistema raffinato. Elena lo aveva ricostruito pezzo per pezzo.

Quando sono uscito da lì, ho capito che non sarebbe bastato. Che trovare la verità non bastava. Serviva dimostrarla. E serviva stare vivi abbastanza a lungo per farlo.

Domani parleremo con Danilo Murgia.

E forse, finalmente, capiremo chi ha avuto più paura della verità.

3 luglio 2025

Caro diario,

Questa mattina ho avuto l’impressione netta che il caso stesse per ribaltarsi. È stato come se tutti gli indizi, che fino a ieri mi erano sembrati solo frammenti vaghi, si fossero avvicinati, suggerendomi una direzione. Ma con troppa insistenza. E ogni volta che gli elementi hanno iniziato a combaciare troppo presto, ho imparato per esperienza che qualcosa non va. Un depistaggio. Un errore. O qualcuno che vuole decidere il gioco.

Alle dieci ho incontrato Diego Valente in un bar poco distante dalla stazione di Susa. Joel aveva fissato l’incontro in modo informale, per evitare che il giornalista si irrigidisse. Valente si è presentato con largo anticipo, vestito con cura, giacca leggera, occhiali da sole appoggiati sul tavolo accanto alla tazzina già vuota. Era chiaro che sapeva perfettamente come gestire un’intervista, anche se non era lui a farla.

Mi ha detto che conosceva bene Elena. Da tempo. Che avevano lavorato su una serie di articoli insieme, in particolare su alcune anomalie nei finanziamenti destinati ai restauri dell’Abbazia. Non solo fondi europei, ma anche privati, elargiti da una fondazione il cui nome, a detta sua, “non doveva risultare in alcun documento ufficiale.” Elena, secondo lui, aveva trovato qualcosa di grosso. Qualcosa che coinvolgeva anche nomi illustri dell’ambiente accademico e politico locale.

Gli ho chiesto se sospettasse qualcuno in particolare. Ha risposto di no, ma lo ha fatto troppo in fretta. Poi ha aggiunto che, pochi giorni prima di morire, Elena gli aveva confidato di aver ricevuto minacce. Telefonate mute, lettere senza firma, appunti spariti. Aveva detto che di avere paura. Ma che non voleva mollare.

A quel punto gli ho chiesto se avesse conservato quelle lettere. Lui ha abbassato lo sguardo, poi ha detto che sì, ne aveva tenuta una. L’ha tirata fuori dal taccuino: un foglio piegato in quattro, senza intestazione, scritto al computer. Diceva solo: “Se continui, ti fermiamo. Smetti di scavare. Non sei più sola.”

La cosa che mi ha colpito, però, è stata la data del timbro postale. Due settimane fa. Lo stesso giorno in cui Costa ed Elena hanno avuto l’ultimo scontro accademico documentato. Strano, no? Ho annotato tutto mentalmente. Poi Valente ha aggiunto un dettaglio che ha spostato l’asse dell’intera indagine.

Ha detto che una sera, dopo una conferenza a Torino, Elena gli aveva raccontato di temere non tanto per se stessa, ma per qualcuno a cui teneva. Qualcuno che lavorava all’interno dell’Abbazia. Non ha fatto nomi, ma ha usato l’espressione “lui sa troppo, ma non se ne rende conto.” Ho pensato subito a Moreschi. Ma più ci riflettevo, più qualcosa non mi tornava.

Il pomeriggio l’ho passato a rileggere le trascrizioni delle deposizioni. Ho notato che Valente ra stato l’unico a non parlare direttamente della mattina del primo luglio. Nessun alibi. Nessuna spiegazione precisa su dove si trovasse. Quando gliel’ho chiesto al bar, ha risposto che stava tornando da Aosta, dove aveva dormito la notte precedente. Ma non c’era traccia di quella trasferta: nessuna ricevuta dell’hotel, nessun pagamento registrato.

Così ho chiamato Casale. Gli ho raccontato tutto. Lui ha detto che si era fatto la stessa domanda. E che stava aspettando il tabulato telefonico del giornalista. Ha chiesto una verifica d’urgenza. Quando mi ha richiamato un’ora dopo, la sua voce è stata più tesa del solito.

 

Il telefono di Valente era stato agganciato dalla stessa cella della zona di Novalesa alle sei e ventitré del mattino del primo luglio. Venti minuti prima dell’orario stimato del decesso di Elena. E non si era trattato di un passaggio casuale. La cella copriva l’area immediata dell’ingresso secondario. Quella stessa inquadrata dalla telecamera dove si è vista una figura indistinta entrare.

Casale ha detto che voleva farlo venire in centrale. Non per arrestarlo, per ora. Solo per chiarire la sua posizione. Ma io gli ho chiesto un giorno. Volevo capire una cosa, prima. Una cosa che mi tormentava da questa mattina.

Sono tornato in abbazia prima della chiusura. Volevo rivedere la disposizione delle stanze, la sequenza degli spazi. Ho rifatto lo stesso percorso che Elena ha fatto quella mattina. L’ingresso secondario, il corridoio in pietra, il chiostro. Poi sono sceso nella cripta, che era ancora posta sotto sequestro.

Lì ho avuto un’intuizione. Era tutto troppo pulito. Troppo ordinato. Nessun segno di trascinamento, nessun disordine attorno al luogo dove c’era stato il corpo. Eppure, se l’assassino l’avesse colpita lì, avrebbe dovuto muoversi con una precisione chirurgica per non lasciare tracce. Oppure… l’aveva colpita altrove e l’aveva portata lì dopo.

E chi poteva conoscere l’abbazia così bene da farlo senza essere visto?

Mi è tornato in mente ciò che aveva detto Moreschi: che era in archivio da solo. Ma nessuno ha mai confermato quella versione. Nessuna telecamera l’ha ripreso. E se avesse visto qualcosa? Se avesse incrociato Elena e Valente, ma avesse deciso di non parlare per paura? O per altro?

Ho chiamato Casale. Gli ho chiesto di convocare Valente il giorno dopo. Intanto volevo un confronto con frate Aldo, l’abate. L’ho trovato nella piccola biblioteca del convento. Gli ho chiesto direttamente se aveva visto il giornalista quella mattina. Ha negato. Ma nel farlo, ha abbassato gli occhi. Poi ha detto una frase che mi ha lasciato senza parole: “I forestieri arrivano sempre quando i segreti stanno per uscire. Ma a volte sono proprio loro il segreto.”

Mentre uscivo dall’abbazia, il sole calava dietro le Alpi. L’ombra delle colonne si allungava sui muri come dita che cercavano di afferrare qualcosa. Forse la verità. O forse solo la mia coscienza, che si è aggrappata all’ipotesi più comoda. Che fosse stato Valente. Che il giornalista, con le sue ossessioni e il suo tempismo sospetto, fosse davvero l’assassino.

Ma lo so fin troppo bene: quando la verità sembra così evidente, è lì che bisogna ricominciare a dubitare.

2 luglio 2025

Caro diario,

Ho dormito poco. Le immagini di ieri mi hanno tormentato per tutta la notte. Continuavo a rivedere il volto immobile della professoressa Rizzi, la posizione innaturale del corpo, quel filo di sangue all’orecchio che sembrava una firma lasciata di proposito.

Joel, in qualità di Commissario Capo, mi ha convocato in caserma a Susa alle otto e mezza. Quando sono arrivato, aveva già disposto una lavagna con le foto della scena del crimine, l'elenco dei presenti all’interno dell’Abbazia nelle ore precedenti e successive al delitto, e alcuni dossier preliminari che la scientifica aveva raccolto. In cima a tutto, quattro nomi. Sospetti? Testimoni? Ancora non lo sapevamo.

Il primo della lista era il professor Matteo Costa, collega della vittima. Storico anche lui, ma con una formazione più accademica, meno “sul campo”. Negli ambienti universitari si vociferava di un rapporto teso tra lui e la Rizzi. Pare che lei lo abbia accusato pubblicamente di aver “ritoccato” alcune fonti per sostenere le sue teorie, un’accusa che in certi ambienti equivale a un atto di guerra.

Ho preso il dossier, ho memorizzato l’indirizzo, e mi sono diretto verso il dipartimento universitario. Lo studio di Costa si trova in un’ala secondaria dell’università, quella meno rinnovata. Ho camminato tra pareti scrostate, odore di muffa e libri umidi. Quando ho bussato, mi ha fatto entrare con un sorriso educato ma freddo. Si è capito che sapeva già chi fossi. Non ha nemmeno chiesto il motivo della mia visita. Ha solo detto che quella tragedia lo aveva profondamente colpito.

Ho cominciato con le domande di rito: quando ha visto Elena Rizzi l’ultima volta, se sapeva cosa stesse studiando, se ci fossero stati problemi recenti. Ha risposto con frasi precise, controllate, ma troppo pronte. Poi ho menzionato il loro ultimo scambio, quello avvenuto per e-mail due settimane prima. Joel me ne aveva parlato: una corrispondenza dura, piena di accuse, allusioni a un plagio. A quel punto Costa ha perso per un attimo la maschera. Si è irrigidito, ha chiuso le mani a pugno, poi ha detto che Elena era una “donna difficile”, con un'ossessione per il controllo. Ha negato qualunque coinvolgimento, ma quel cambio di tono non mi è sfuggito.

L’ho lasciato lì, a contemplare il suo archivio ordinatissimo. Fuori, l’aria si era fatta pesante, come prima di un temporale.

Nel pomeriggio sono andato a trovare Gabriele Moreschi, la guida turistica. Abita in una villetta un po’ sciatta ai margini di Novalesa. È un uomo sulla cinquantina, occhi piccoli e movimenti rapidi. Mi ha accolto con una certa diffidenza. Ho detto che stavo collaborando con la polizia per ricostruire gli ultimi movimenti della professoressa. Mi ha fatto accomodare in soggiorno, ma è rimasto in piedi.

Gli ho chiesto se conoscesse Elena Rizzi. Ha detto di sì, che avevano lavorato insieme a un progetto di valorizzazione culturale. Ma quando ho chiesto dove fosse al momento del delitto, ha esitato. Ha detto che era in archivio, da solo. Nessun testimone. Nessuna conferma. La voce gli si è incrinata leggermente. Ho provato a incalzarlo, a chiedergli se sapesse di tensioni tra la Rizzi e altri frequentatori dell’abbazia. Ha detto solo che lei “non sapeva stare al suo posto”.

Quella frase mi è rimasta impressa. Troppo simile a quella usata da Costa, anche se in contesti diversi. Forse era davvero così. O forse stava dando fastidio a qualcuno.

Tornato in caserma, ho fatto il punto con Joel. Mi ha detto che nel cellulare della vittima avevano trovato un messaggio inviato la sera prima a un numero non salvato in rubrica. Diceva: “Domani mattina alle sette. Sii puntuale. Voglio finirla con questa storia.” L’orario combaciava con il tempo stimato del decesso. E il tono… era quello di un ultimatum.

Joel ha fatto controllare il numero. Era intestato a una carta prepagata. Non si è potuto risalire al proprietario in quanto risultavano documenti falsi. Ma c’era un dettaglio interessante: la cella agganciata dalla SIM, nelle ore del messaggio, risultava compatibile con la zona dell’abbazia.

Abbiamo chiesto alla polizia locale se ci fossero telecamere nei dintorni. Ne abbiamo trovata una puntata sull’ingresso secondario del complesso. La qualità era pessima, ma si è vista una figura entrare all’alba, un’ombra più che un volto. Joel ha detto che l’andatura sembrava quella di Moreschi. Io non ero convinto. Ma qualcosa, nella postura, nell’inclinazione del capo, mi ha fatto pensare. Era qualcuno che conosceva bene quel posto.

Prima di chiudere la giornata ho voluto fare un salto all’abbazia. Di sera, quando le visite erano terminate. Ho camminato nel chiostro quasi al buio, guidato solo dalla memoria. Ho rivisto la scala della cripta, i gradini umidi, la pietra su cui era distesa Elena. Ho pensato al messaggio: “Voglio finirla con questa storia.” Cosa voleva dire? Che storia? Quale segreto voleva svelare? E a chi?

Sono tornato in macchina con quella tensione che sento sempre quando so di essere vicino a qualcosa. Quando tutti mentono. Quando ognuno ha un pezzo della verità, ma nessuno ha il quadro completo. Domani vedrò il giornalista. Diego Valente. Forse lui potrà darmi una risposta.

Intanto, ho annotato tre parole sul mio taccuino, cerchiate più volte: RICATTO. VENDETTA. SEGRETI.
Quale di queste ha spinto qualcuno a uccidere Elena Rizzi?

Primo Luglio 2025

Caro diario,

Oggi avevo deciso di andare a visitare l’Abbazia di Novalesa per trovare un poco di pace in quei luoghi che ho conosciuto bene e che, ogni volta, mi hanno sorpreso con un dettaglio nuovo. Ma ho imparato, a mie spese, che ogni volta che mi sono illuso di potermi rilassare, qualcosa mi ha stanato.

La mattina è iniziata bene. Il cielo era terso, l’aria frizzante. Ho parcheggiato poco sotto il piazzale dell’abbazia, poi ho preso lo zaino e mi sono incamminato. Ho portato con me solo un taccuino, una penna, una bottiglietta d’acqua e la macchina fotografica compatta, oltre al mio “amico inseparabile”: il diario. L’idea era quella di fare un giro, rivedere alcuni ambienti della struttura, scattare qualche foto ai capitelli del chiostro. Niente di più.

L’ingresso si è rivelato silenzioso, come sempre. Qui tutto tace. I monaci non si sono fatti vedere, e la presenza di qualche turista isolato non ha disturbato l’atmosfera. Ho fatto un giro nel chiostro, ho osservato i giochi di luce sulle colonne, ho ascoltato il rumore dell’acqua della fontana centrale. Poi mi sono diretto verso la cripta. Non era la prima volta che scendevo, ma qualcosa mi ha attirato lì sotto più del solito.

La scala era fredda, come sempre. Ho sentito l’umidità sotto le dita appoggiate al corrimano. La cripta, con le sue volte basse e le sue luci fioche, ha sempre avuto un che di sacrale, ma non mi ha mai messo soggezione. Fino a oggi.

Non avevo fatto in tempo a mettere piede sull’ultimo gradino che ho percepito qualcosa di strano. Non subito visibile, ma presente. Un odore. Ferroso, umido, come quello che si sente in certi scantinati dove il tempo si è fermato. Ma lì c’era qualcosa in più: l’odore del sangue.

Ho rallentato il passo. L’aria è sembrata immobile. Mi sono avvicinato all’altare laterale, quello meno visitato, quello che spesso le guide ignorano. E lì l’ho vista. Una donna distesa a terra. Immobile. Il corpo rigido, le braccia lungo i fianchi. I capelli castani spettinati, un filo di sangue che le colava dall’orecchio sinistro. Gli occhi chiusi. Il volto pallido. Ho capito subito che non c’era più nulla da fare.

Mi sono avvicinato lentamente, senza toccare nulla. Il corpo era freddo. I vestiti – un completo sobrio ma elegante – apparivano puliti, senza segni di lotta. Ma la posizione era strana: troppo composta per essere caduta in modo naturale, troppo perfetta per un malore improvviso. Ho fatto un respiro profondo e ho chiamato Casale.

Lui è arrivato dopo un’ora, insieme alla scientifica, a due agenti locali e, immancabilmente, a Joel, Commissario Capo. La zona è stata isolata. I turisti sono stati fatti uscire e i monaci sono stati radunati in un'altra ala. Casale e Joel mi hanno raggiunto nella cripta. Joel si è inginocchiato accanto al corpo e ha annuito. Anche lui aveva capito che non si trattava di un incidente.

La scientifica ha iniziato a fare rilievi. Le prime analisi hanno escluso subito una morte naturale. Nessun segno evidente di colluttazione, ma una piccola ferita alla base del cranio. Non c’era molto sangue, ma quel poco bastava. Nelle tasche, pochi oggetti personali: chiavi, portafoglio, un cellulare spento e un tesserino accademico. Prof.ssa Elena Rizzi. Storica dell’arte, specializzata in iconografia medievale. Aveva pubblicato diversi saggi proprio sull’Abbazia di Novalesa. Casale l’ha riconosciuta. L’aveva incontrata a un convegno, anni fa. Ha detto che era una donna brillante, ma con un carattere che non si faceva mettere i piedi in testa.

La sua morte non poteva essere una coincidenza. Quel luogo, quel momento, il modo in cui era stata trovata. Qualcuno l’aveva colpita. Forse una discussione degenerata. Forse qualcosa di premeditato. Ma da chi? E perché lì?

Joel mi ha guardato. Ha capito che ero già pronto per investigare. Quando capita una cosa del genere sotto i miei occhi, non riesco a restare a guardare. Così abbiamo cominciato a fare domande. Ai monaci, al personale, ai visitatori. Tutti hanno detto di non aver visto nulla. Nessuno ha ricordato urla, rumori strani. Solo silenzio.

Uno dei monaci, padre Ottavio, ha raccontato di aver visto la professoressa la sera prima. Ha detto che era venuta da sola, che si era presentata all’ingresso poco prima dell’orario di chiusura, chiedendo di poter accedere alla cripta per un confronto con delle iscrizioni su cui stava lavorando. Ha detto che sarebbe rimasta pochi minuti. Era abituata a lavorare da sola, in silenzio. Nessuno si è preoccupato di seguirla.

Ma qualcuno, evidentemente, l’ha fatto. Joel ha chiesto i registri degli ingressi. Sono risultati quattro nomi di visitatori rimasti oltre l’orario previsto. Tutti autorizzati per motivi di studio. Quattro nomi. Quattro possibili testimoni. O sospetti. Casale ha ordinato di convocarli. Mi ha affidato il primo: Matteo Costa, collega della vittima. Di lui mi occuperò più tardi.

Per ora ho solo in testa quell’immagine. Il corpo disteso sulla pietra, il sangue che ha segnato un percorso sottile verso il pavimento, l’eco delle mie scarpe nella cripta vuota. E il pensiero che, ancora una volta, la storia ha deciso di scegliersi il suo detective.