Nel tuo podcast "Io l'ho fatto - La camicia del mercoledì" ho trovato la stessa atmosfera psicotica che ho provato leggendo "American psycho" di Easton Ellis: il tuo protagonista me lo ha ricordato molto, soprattutto nella fobia di avere sempre l'abbigliamento in ordine. Bravo, un racconto breve ma efficace.
miu
12 giorni fa
URKA, mi hai colpito.!
Non c’è sangue, non c’è rumore, ma fa più male di tanti racconti drammatici.
Il gesto finale è solo l’ultimo passo in una lunga invisibilità.
L’ho sentito vero, davvero vero.
Il tagliacarte, il neon, la polvere… tutto parla.
Grazie per averlo scritto
Miu
fosco
12 giorni fa
Molto bello, Kalel! Complimenti per la costruzione la storia delle origini e la conclusione , tragicamente evolutasi. Ognuno porta dentro di sè un inferno quotidiano, e guai a infiammar fiamme a fatica controllate. Complimenti, novello Edgar Allan! Buon proseguimento!!
fata
12 giorni fa
Il tuo diario pulsa di tensione narrativa e intimità emotiva.
Hai costruito un frammento che tiene insieme mistero, dolore e sete di verità con una voce lucida e coinvolta.
Il tono è quasi da noir emotivo, in bilico tra investigazione e confessione, e il tuo protagonista trasmette quel senso di giustizia personale che nasce non dall’obbligo, ma dal legame.
fata
12 giorni fa
Hai scritto qualcosa che toglie il fiato.
È una confessione intima e potentissima, che si muove con pudore e disperazione dentro la zona grigia dell’etica, della solitudine, della cura e del senso di umanità.
La protagonista — tu o un’eco — non è un angelo, né un carnefice.
È un essere umano che ha vegliato per ventitré anni, in silenzio, tra il buio e i corridoi, fino a intrecciare una complicità fatta di non-detti, di segnali oculari e di piccoli gesti che contengono un mondo.
La camera 211 non è solo un luogo, ma una storia d’amore fra anime sfinite.
Non c’è giudizio, ma una quiete inquietante.
Il momento in cui apre la finestra — proprio lei che non le ha mai lasciate aperte — è il battito segreto di tutta la narrazione: un gesto simbolico, una crepa nella corazza, un passaggio dell’aria che sussurra libertà, o redenzione.
E poi c’è quel finale, sobrio, lacerante: “la chiudo lo stesso”.
Come dire: ogni gesto ha memoria, e certe porte non si riaprono mai, ma si commemorano.
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Nel tuo podcast "Io l'ho fatto - La camicia del mercoledì" ho trovato la stessa atmosfera psicotica che ho provato leggendo "American psycho" di Easton Ellis: il tuo protagonista me lo ha ricordato molto, soprattutto nella fobia di avere sempre l'abbigliamento in ordine. Bravo, un racconto breve ma efficace.
URKA, mi hai colpito.!
Non c’è sangue, non c’è rumore, ma fa più male di tanti racconti drammatici.
Il gesto finale è solo l’ultimo passo in una lunga invisibilità.
L’ho sentito vero, davvero vero.
Il tagliacarte, il neon, la polvere… tutto parla.
Grazie per averlo scritto
Miu
Molto bello, Kalel! Complimenti per la costruzione la storia delle origini e la conclusione , tragicamente evolutasi. Ognuno porta dentro di sè un inferno quotidiano, e guai a infiammar fiamme a fatica controllate. Complimenti, novello Edgar Allan! Buon proseguimento!!
Il tuo diario pulsa di tensione narrativa e intimità emotiva.
Hai costruito un frammento che tiene insieme mistero, dolore e sete di verità con una voce lucida e coinvolta.
Il tono è quasi da noir emotivo, in bilico tra investigazione e confessione, e il tuo protagonista trasmette quel senso di giustizia personale che nasce non dall’obbligo, ma dal legame.
Hai scritto qualcosa che toglie il fiato.
È una confessione intima e potentissima, che si muove con pudore e disperazione dentro la zona grigia dell’etica, della solitudine, della cura e del senso di umanità.
La protagonista — tu o un’eco — non è un angelo, né un carnefice.
È un essere umano che ha vegliato per ventitré anni, in silenzio, tra il buio e i corridoi, fino a intrecciare una complicità fatta di non-detti, di segnali oculari e di piccoli gesti che contengono un mondo.
La camera 211 non è solo un luogo, ma una storia d’amore fra anime sfinite.
Non c’è giudizio, ma una quiete inquietante.
Il momento in cui apre la finestra — proprio lei che non le ha mai lasciate aperte — è il battito segreto di tutta la narrazione: un gesto simbolico, una crepa nella corazza, un passaggio dell’aria che sussurra libertà, o redenzione.
E poi c’è quel finale, sobrio, lacerante: “la chiudo lo stesso”.
Come dire: ogni gesto ha memoria, e certe porte non si riaprono mai, ma si commemorano.